Itinerario circolare in bicicletta nella Bassa Parmense con partenza da Colorno.
Un rettangolo di terra verde, ben delimitato su tre lati da altrettanti fiumi – il Taro, il Po, il Parma – più incerto nel quarto, solcato da fossi e canali, a poca distanza dalla Via Emilia e da Parma. Nel mezzo, campi, filari di pioppi, cascinelli, piccoli e grandi paesi che si guardano da un campanile all’altro. Un paesaggio fragile, creato dalla bonifica. Anche se di pianura è comunque un paesaggio a due livelli, che si può godere dall’alto degli argini o dentro le depressioni delle vecchie golene fluviali. Differenze minime – non più di quattro o cinque metri – ma sufficienti per allargare lo sguardo sull’orizzonte, per essere accarezzati dalla brezza nelle giornate estive, per sentirsi avvolti dalla nebbia in quelle invernali. Un paesaggio non concluso, specie lungo il Po, sempre in evoluzione secondo gli eventi naturali che espandono, modificano, scavano il grande letto fluviale. C’é ovunque un rapporto diretto con l’acqua. Gli stessi abitati indicano il termine di un fiume o di un torrente: Colorno («in capo al Lorno»), Coltaro («in capo al Taro»), Copermio, Coenza e così via. Pesca, mulini fluviali, commerci, estrazione di sabbia erano fino agli anni ‘50 attività integrative dell’agricoltura, poi venute meno e sostituite da un fitto tessuto di imprese connesse con la trasformazione alimentare dei prodotti agricoli (salumifici, zuccherifici ecc.). È questo il nuovo segno distintivo del benessere e ha un notevole impatto sul territorio: non solo grandi contenitori industriali, sparsi qua e là con poco raziocinio, ma anche continuità lineari di empori, grandi magazzini, uffici, residenze che poco hanno a che fare con la circostante campagna. Così che la bassa pianura parmense, come del resto buona parte della pianura emiliano-romagnola nelle vicinanze delle grandi città, vive su nette contraddizioni, dove uno stile di vita tecno-modernista di palazzi in vetro riflettente, insegne, parcheggi e viadotti poggia su un palinsesto fatto di croste di cascine, fossi, concimaie, maiali, stalle e stradelli fangosi. La storia, in un territorio così variamente sedimentato e tuttora in grande evoluzione, si può interpretare nel disegno naturale attraverso l’osservazione dei fenomeni geomorfologici (i vecchi alvei, i letti fluviali abbandonati, i terrazzi e i rilievi isolati) o nelle vicende umane che si sintetizzano nello splendido ‘unicum’ della reggia ducale di Colorno, residenza estiva settecentesca prediletta dai Farnese e nido degli intrighi amorosi di Barbara Sanseverino. Nella reggia e nel suo parco si concluderà in modo degno il nostro itinerario. Prima andrà a perlustrare le circostanti campagne fino a lambire, sull’alto degli argini, i tre fiumi sopracitati e le loro ricchezze naturali. La bicicletta, la nostra ‘sedia ambulante’ secondo un’arguta osservazione di Cesare Zavattini, servirà egregiamente allo scopo.

La località della Bassa Parmense si raggiunge da Parma seguendo per 15 km la provinciale 343. Si sviluppa su strade secondarie asfaltate e sugli argini inerbiti dei fiumi. In quest’ultimo caso il tragitto può diventare un po’ faticoso, specie se l’argine non è stato sfalciato. Possibili alternative sono indicate sulla cartina. Compatibilmente con gli orari di apertura (vedi sotto), l’itinerario può prevedere anche la visita dell’Oasi faunistica di Torrile, gestita dalla Lipu, e del Palazzo Ducale di Colorno. Lunghezza: 42.4 km. Dislivello: insensibile. Condizioni del percorso: su strade asfaltate per 20.4 km; su sterrate per 22 km. Mezzo consigliato: mountain-bike o bicicletta da turismo con cambi e battistrada rinforzato. Non dimenticare gli attrezzi per ovviare alle forature e, in estate, le protezioni contro moscerini e zanzare. Rifornirsi d’acqua. Periodo consigliato: primavera e autunno.
Dove mangiare: lungo l’itinerario o nelle immediate vicinanze vi sono diverse possibilita di gustare l’ottima cucina della bassa emiliana, quale ideale integrazione al piacere della pedalata. In particolare: Laghi verdi, via Cò di Sotto, Gramignazzo di Sissa, tel. 0521.879028, aperto da aprile a ottobre (specialità il pescegatto, che si alleva in luogo); Nonna Bianca, via Roma 2, Trecasali, tel. 0521.878363; Al Vedel, via Vedole 68, Colorno, tel. 0521.816169; Stendhal, a Sacca, tel. 0521.815493. Dove dormire: Hotel Versailles***, via G. Saragat 3, Colorno, tel. 0521-312099.
Indirizzi utili: Ufficio turistico di Colorno (nel Palazzo Ducale), tel. 0521-816939; Oasi Parma Morta, c/o Centro Visite, Strada della Resistenza 2, Mezzani, tel. 0521-817131; Museo etnografico dell’Aranciaia di Colorno, tel. 0521-816939; Caseificio Balestrazzi (produzione e vendita parmigiano-reggiano), Corte di Sanguigna, tel. 0521-814933, aperto anche la domenica. Assistenza ciclistica: a Colorno, Tecnobike, via Matteotti; Bernardi, via Duttilò 45.
Orari di visita: Palazzo Ducale di Colorno, le visite si effettuano in gruppi guidati (si consiglia di contattare l’Ufficio turistico di Colorno); Aranciaia-Museo dell’Ingegno Popolare, su prenotazione presso l’Ufficio turistico di Colorno; Oasi Lipu di Torrile, giovedì, sabato e domenica dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 18, tel. 0521.810606.
Il punto di partenza è stabilito a Colorno (km 0, alt. 29, ab. 7932). L’attenzione del visitatore è subito attratta dal Palazzo Ducale, ma si può riservare la visita alla fine dell’escursione. Pertanto ci si avvia in direzione di Mezzani e di Brescello seguendo il sinuoso corso del torrente Parma sul suo argine destro (l’argine si stacca da via Roma – sulla provinciale 343 – una volta aggirato il giardino del palazzo dalla parte della stazione ferroviaria). La situazione stradale leggermente sopraelevata sarà una costante dell’itinerario e consente un più largo giro d’orizzonte: fra i campi si scorge il lindo oratorio neoclassico di Copermio, realizzato nel 1772 da Pietro Cugini; accanto è il casino di caccia di Ferdinando di Borbone, singolare edificio di forma cubica affrescato sulle volte interne con soggetti profani dovuti a Antonio Bresciani (1773).
Assecondando le anse del Parma si avvicina un ponte ad arco (km 3.7, alt. 31). Girando a sinistra lo si passa e ci si immette sull’argine destro del Po. Il grande fiume è vicino ma ancora non lo si vede. Vicino al ponte sorge un edificio idraulico che ricorda come qui la bonifica si sia conclusa verso il 1880 con la correzione dell’ultimo tratto del Parma. In precedenza il torrente si impaludava poco prima della foce nell’Enza e gli ultimi residui del suo antico letto fanno oggi parte della Riserva naturale Parma Morta, visitabile proseguendo, prima del ponte, in direzione e oltre Mezzano per circa 5 chilometri.
Deviazione. La Riserva naturale Parma Morta si estende per circa 65 ettari lungo l’alveo abbandonato del torrente Parma la cui attuale funzione è di cassa d’espansione delle piene del Canale Parmetta. La riserva, istituita nel 1990, ha permesso di limitare le frequenti erosioni operate dai conduttori dei limitrofi fondi agricoli. La zona risulta colonizzata dalla canna palustre e da altre specie acquatiche (lenticchia d’acqua, utricolaria). Le fasce spondali sono occupate da salici e pioppi. Il gheppio e la gallinella d’acqua sono animali presenti con continuità nella riserva, altre specie sono meno frequenti (nitticora, tarabusino, cannaiola, cannareccione ecc.). Fra gli anfibi si segnala, in particolare, il tritone crestato.
Si percorre ora l’argine del Po, ma solo per poche decine di metri. Uno stradello sterrato (via Mulattiera, se ben ricordo!) scende verso destra e si dirige al fiume, fino a un secondo più piccolo argine che si inizia a seguire verso sinistra. Questo tratto dell’itinerario, fino a Sacca, è consigliato solo se l’arginello risulta sfalciato e comunque richiede un po’ di fatica nella pedalata. In alternativa si può proseguire (vedi cartina) sull’argine maestro del Po. La nostra descrizione riguarda comunque la prima possibilità. L’arginello, ormai molto vicino al fiume, raggiunge presto una debolissima depressione (lo si nota all’altezza di una biforcazione di percorsi) che indica la presenza di un cessato alveo del Po, di non antica data perché ancora ricordato nella denominazione locale come Po Vecchio. La fascia depressa è intensamente coltivata ma la morfologia non tradisce il precedente assetto tant’è che l’argine principale in questo tratto è più arretrato del solito: il fiume, in passato, doveva lambirlo da vicino. Bisogna proseguire sull’arginello e aggirare verso sinistra una casa rosa ridossata al fiume. Il debole rialzo di terra separa nettamente i campi a cereali dal pioppeto che predilige i suoli umidi e sabbiosi della golena.
Una fitta selva ‘artificiale’ si interpone spesso sull’orizzonte visivo. Si tratta di coltivazioni industriali di pioppo ibrido, destinate alla produzione di cellulosa. Più avanti si sottopassano la provinciale 343 e la ferrovia Parma-Brescia (km 8.7, alt. 26), che già proiettano sul Po le lunghe campate dei loro ponti. Fino agli anni Cinquanta il collegamento stradale fra le due sponde era garantito da un caratteristico ponte di barche. Si continua a seguire fedelmente l’argine che costeggia ora un ramo morto del fiume fra abbondanti depositi sabbiosi e digitiformi sacche paludose.
Al km 11 (alt. 32) si supera una sbarra e, presso Ca’ Basse, si esce sull’asfalto della strada d’argine maestro, o provinciale 33 (da dove si sarebbe giunti se si fosse preferita la strada asfaltata), continuando a costeggiare il fiume. Superata una cava di sabbia fluviale si avvicina Sacca (km 11.9, alt. 27), già posto di dogana e dismesso punto di traghettamento del fiume, ranicchiato a protezione sotto l’argine. La sua struttura, assieme a quella di altri abitati d’argine, è molto semplice e si organizza attorno alla parrocchiale, di solito isolata al margine del nucleo, e a uno slargo erboso cui affacciano basse case in linea.

A Sacca si lascia l’argine e si scende a destra, in riva al Po. Un piccolo ormeggio, alcune baracche e il ritrovo della Motonautica Parmense rimandano a momenti lontani quando il fiume, meno inquinato e incanalato di oggi, era occasione di svago e divertimento. Si impegna, su uno stradello sterrato (che potrebbe però, in estate, risultare impraticabile per via dell’esuberante vegetazione), la sponda del fiume ben delineata da un filare di pioppi cipressini. È uno dei segni paesaggistici più ricorrenti in questo tratto mediano del fiume: il suo ampio letto scorre guidato dalle alte fronde degli alberi che la mitologia ha identificato nelle piangenti sorelle di Fetonte, scaraventato da Giove nel Po per la sconsiderata guida del cocchio del Sole, stillanti gocce di ambra. «E mentre si meravigliano, una corteccia circonda l’inguine e gradatamente fascia il ventre, poi il petto, poi le spalle, poi le mani, e riamangono scoperte solo le bocche, che invocano la madre.» (Ovidio, Metamorfosi, II, 355-359).

Quando il percorso lungofiume risulta impedito è bene volgere a sinistra seguendo un tenue percorso sterrato fra le coltivazioni della golena. Si torna all’argine nei pressi della Corte di Sanguigna (km 15.2, alt. 29) che merita una visita sia per gustare le prelibatezze del locale caseificio, sia per rammentare il suo ruolo nella fase medievale di colonizzazione della Bassa Parmense. Sorto come monastero benedettino, il complesso si è evoluto in azienda agricola e si dispone attorno a una vasta corte rettangolare e alla chiesa. Ripreso l’argine si prosegue, su sterrato, alla volta di Coltaro; a destra, nella golena, si estende il Bosco di Maria Luigia, area naturalistica ben conservata cui si accede dal Parco fluviale (buon luogo di sosta) situato nel punto dove la nostra strada torna a seguire da vicino il Po.
Al di fuori della copertura arborea fornita dai pioppeti industriali persistono, in misura purtroppo limitata, alcuni ambiti di foresta fluviale dalla spiccata impronta naturale. Si tratta in genere di fasce, dove è prevalente il saliceto, ubicate entro le linee ideali del livello medio delle piene normali e del livello medio delle magre estive. I saliceti arbustivi (Salix purpurea, Salix triandra, Salix fragilis) sono più soggetti alla dinamica idraulica del fiume e colonizzano rapidamente le sponde prossime al fiume con folti e intricati strati vegetativi. Ad essi si associano formazioni erbacee rampicanti, come la dulcamara (Solanum dulcamara) e la brionia comune (Bryonia dioica), o specie erbacee tipicamente di greto, quali la forbicina comune (Bidens tripartita) e il poligono nodoso (Polygonum lapathifolium). Alle spalle della fascia arbustiva il saliceto evolve in abito arborescente, con passaggi graduali e su suoli meno minacciati dalle immersioni, talvolta inframmezzati da formazioni igrofile erbacee (carici e graminacee). La specie più diffusa in questo ambito è il salice comune (Salix alba), unito al salice da vimini (Salix viminalis) e al salice ripaiolo (Salix eleagnos), fino ad arrivare alla comparsa di popolamenti più o meno densi di pioppo bianco, pioppo nero, ontano comune. Il sottobosco del saliceto arborescente è prevalentemente composto da specie nitrofile, quali luppolo (Humulus lupulus), salcerella (Lythrum salicaria), ortica (Urtica dioica) ecc.
La coltivazione del pioppo ibrido.
L’ibridazione del pioppo ha seguito lunghi e perfezionati processi, da quelli originariamente spontanei a quelli manipolati dall’uomo. Si contano oggi alcune centinaia di varietà ibridate, convenzionalmente riunite sotto la dizione di Populus canadensis. I suoi lontani progenitori sono due tipi di pioppi neri: una specie americana (Populus deltoides) e una europea (Populus nigra). Alle specie attualmente coltivate si richiedono qualità finalizzate alla loro destinazione produttiva: rapida crescita (10-12 anni), resistenza alle malattie, buona tenuta del legno. Per crescere con queste condizione il pioppo richiede terreni sciolti, ben aereati e sufficientemente umidi. Eccessi di umidità o di aridità, con suoli spesso inondati o troppo grossolani, possono alterare notevolmente il grado di produttività degli impianti. Nei primi anni di crescita, quando la pioppeta è ancora ben luminosa si usa sfruttare il terreno anche per colture erbacee quali tabacco, barbabietole, mais. Dopo i primi 3-4 anni, quando le chiome degli alberi si espandono fino a ombreggiare quasi completamente il suolo, subentrano specie graminacee (Poa trivialis) e ruderali (Solidago gigantea, Artemisia vulgaris, Helianthus tuberosus). Le estese e regolari estensioni a pioppeto, se non troppo soggette a movimentazioni del terreno (erpicature e sarchiature), sono rifugio di diverse specie di uccelli: dalle allodole, che nidificano anche nei ciuffi d’erbe alla base dei tronchi, alle cornacchie grigie, al fringuello (Fringilla coelebs) e al rigogolo (Oriolus oriolus). Se poi gli impianti non risultano soggetti a forti trattamenti con antiparassitari risulta frequente la presenza del picchio rosso maggiore. La sua abitudine di scavare più fori del necessario nei tronchi, fa sì che altre specie ne approfittino per trovare ottimi nidi, quali la cinciallegra (Parus major) e la passera mattugia (Passer montanus).
L’itinerario dell’argine passando appena sopra, in senso sia geografico sia altimetrico, Torricella (km 22, alt. 30) giunge alla sua estremità nord-occidentale. Lasciato il Po e affrontata, ai Laghi Verdi, un’ampia curva si avvicina il Taro: uno stretto letto d’acqua, un po’ torbido per la verità, si perde in sinuosi meandri, prima di confluire nel Po. Sotto l’argine si raccoglie l’abitato di Gramignazzo (km 24.6, alt. 30).
Si incrocia la strada provinciale 33 (attenzione!), si affianca giù dall’argine una fornace di mattoni e si giunge a una biforcazione (km 26.6): a destra si lascia via Rigosa e si riprende l’argine. Prima però si osservi il vicino cascinale (Case Vecchie), nella più comune forma delle vecchie case mezzadrili, con l’abitazione separata dal grosso rustico porticato che ospitava sia il fienile sia la stalla.

Si procede fino all’altezza di un molino industriale, nei pressi di Borgonovo (km 28, alt. 32). Qui si abbandona l’argine e si segue, a sinistra, un rettifilo (viale G. Verdi) che in breve arriva a Sissa (km 29, alt. 32, ab. 3945). L’abitato presenta, oltre al castello (risale al XIV secolo, ma subì distruzioni e alterazioni fino al ‘700), un impianto urbanistico di matrice medievale. Originatosi in epoca antica su un dosso riparato dalle alluvioni, ha mantenuto una forma compatta e anulare, un tempo racchiusa entro le mura. Gli isolati edilizi assecondano ancora quel disegno e fanno perno su uno slargo centrale, detto la ‘Piazzola’.
Da segnalare nella vicina frazione Palasone, la ‘Consorteria della spalla cruda’. Si tratta di una tradizione risalente al XII secolo per la lavorazione artigianale di questo prelibato genere di salume, tenuto a stagionare negli scantinati ma sensibile alle atmosfere nebbiose dell’inverno padano, apportatrici di un tenore di umidità che esalta le qualità finali del prodotto.
Si esce da Sissa seguendo le indicazioni per Trecasali (alla periferia di Sissa si lasci però a sinistra via Filippina, che riporterebbe subito a Colorno) lungo una strada (provinciale 8) dove si affollano villini e imprese commerciali, segno evidente delle trasformazioni di queste campagne. All’altezza dell’edicola della Madonna di Bastella (notare il portoncino in legno e il bel portichetto antistante) si piega a sinistra entrando a Trecasali (km 32.2, alt. 30, ab. 3054). Seguendo le indicazioni per Torrile si esce dall’abitato (via Campedello) e, dopo un tratto in aperta campagna (provinciale 43), si raggiunge, vicino allo zuccherificio Eridania, l’oasi Lipu di Torrile (km 36.4, alt. 32).
È un caso poco frequente di rinaturalizzazione guidata di un ambiente agricolo. Da un campo di 35 ettari si sono realizzati stagni, falesie, isole, canali, laghetti, boschi… insomma gli ambienti ideali per lo svernamento o il ‘passo’ di migliaia di uccelli. Aperta dal 1988, l’oasi è dotata di percorsi visita e di capanni per l’osservazione faunistica. Si possono identificare circa 250 specie di uccelli, fra cui la cospicua popolazione di cavaliere d’Italia, composta da 100 coppie nidificanti. Da segnalare anche la testuggine d’acqua (Emys orbicularis), ospite gradito degli stagni dell’oasi. A Torrile sono stati allestiti, dal 1993, un Centro cicogne, per la riproduzione della cicogna bianca, e dal 1995 un Centro anatidi per la conservazione di specie di anatre in pericolo di estinzione.
Dopo la visita all’oasi si entra a Torrile (km 37.8, alt. 32) 10. Per rientrare a Colorno si può evitare di percorrere la trafficata provinciale 9, detta ‘di Golese’: basta salire sull’argine del Parma e attraversare il torrente su una passerella pedonale che si collega alla strada campestre diretta a Vèdole (km 41.1, alt. 29) e quindi a Colorno.
Prima di entrare nell’abitato si passa accanto all’oratorio della Santissima Annunciata (sec. XVII-XVIII). Fu fatto erigere da Dorotea Sofia, consorte di Francesco Farnese, nel 1727, con una curiosa canonica di forma esagonale. Non si deve lasciare la bella cittadina dalla quale avevamo intrapreso l’itinerario, senza dedicare un po’ di tempo alla visita del Palazzo Ducale, del giardino e, eventualmente, al Museo etnografico ospitato nell’Aranciaia. «Ho girato intorno al muro che cinge il parco del palazzo ducale, o reggia dei duchi di Parma. È una vera reggia, ed è come se fossi in soggezione nel suo enorme parco pieno d’alberi, o davanti a quella facciata riflessa nell’acqua di un canale. In altre epoche gli abitanti del posto dovevano essere in soggezione come me, davanti a tanta magnificenza» (Gianni Celati).

Da qualunque parte la si osservi, con la sue chiare facciate e le sue quattro torri d’angolo, la Reggia di Colorno richiama uno scenario di almeno tre secoli fa, con gli eccessi e le ridondanze barocche del pieno Settecento. I Sanseverino, già feudatari di Colorno, conclusero nel XVI secolo la trasformazione dell’originaria rocca in residenza. Francesco Farnese diede al palazzo ancor più degno aspetto chiamando nel 1697 Ferdinando Bibiena a ridefinire le facciate e a erigere le torri. Dal 1749 fu Filippo di Borbone, educato a Parigi, a chiamare i migliori artisti francesi del periodo, fra cui Ennemond Petitot e Jean-Baptiste Boudard, a riordinare gli interni, a curare i decori, a progettare il magnifico parco che le stampe dell’epoca indicano molto più ricco e articolato di oggi, popolato di animali, adorno di fontane e giochi d’acqua. Il tutto per consegnare ai duchi di Parma un fastoso luogo di delizia che rivaleggiasse (o quantomeno ambisse a farlo) con le più sfarzose residenze d’Europa. Sarebbe forse rimasto così se la sventura delle spogliazioni volute dai Savoia dopo l’Unità, la guerra e la successiva parziale trasformazione in manicomio non lo avessero ridotto a puro involucro di memorie. Fortunatamente strappato alla decadenza, il Palazzo sta rinascendo come centro espositivo e culturale. Ospita il Centro di documentazione sulla storia e la cultura della Pianura Padana.
L’Aranciaia, discosta dal Palazzo a non più di 300 metri sulla strada verso Parma (via Cavour), ospita il Museo dell’Ingegno Popolare, dove fra reperti, oggetti e testimonianze si ha una completa idea delle tecnologie usate nelle nostre campagne prima della fase industriale.
La coltivazione del mais
La coltura dei mais, o granoturco (Zea mays), introdotta in Europa dalle Americhe nel 1495, è divenuta una costante dominante del paesaggio padano, grazie alla sua preminenza nell’alimentazione umana e del bestiame. Qui si realizzano le condizioni climatiche più favorevoli allo sviluppo delle piantagioni. Grazie alle selezioni e al miglioramento genetico, la maicoltura risulta prevalente su tutte le altre colture nella Valle Padana. Seminata in primavera, la pianta raggiunge la maturazione in estate; alcune varietà precoci possono addirittura essere seminate dopo il ciclo del frumento e raccolte nello stesso anno. Gli effetti di tale coltivazione sono rilevanti non solo sotto l’aspetto paesaggistico ma anche sotto quello ecologico. Il suo impianto e le modalità di crescita favoriscono la compresenza di specie infestanti, alcune appartenenti alla stessa famiglia del mais, come il panico, eliminate con processi di diserbo chimico sempre più selettivi e forieri di inquinamento dei suoli e delle acque. L’uniformità del paesaggio maicolo risulta in questi ultimi anni stemperato da altre colture d’importazione, quali la soia (Glycine max) e il girasole (Helianthus annuus).
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