La si potrebbe chiamare Francigena delle sabbie e dei calanchi, il tratto, superbamente panoramico che unisce Castelfiorentino a Gambassi Terme lungo il versante della Valdelsa, in Toscana. Ideale per un assaggio della grande via di pellegrinaggio medievale. Un bus assicura il ritorno al punto di partenza. Si cammina in prevalenza su strade campestri sterrate (asfalto per circa 3 km in entrata a Gambassi).
Lunghezza: 18,8 km. Dislivello in salita: 426 metri.
Tempo di percorrenza: 6 ore.
Il punto di partenza è fissato a Castelfiorentino, centro della Valdelsa, collegato per ferrovia con Siena e Firenze.
Il punto d’arrivo è a Gambassi Terme, centro collinare del versante sinistro della Valdelsa, collegato con Castelfiorentino mediante autolinea Più Bus (info: https://www.piubus.it)
Dove mangiare. Lungo il percorso non si incontrano pochi punti di ristoro. Pertanto è bene fare provviste in partenza a Castelfiorentino.
Dove dormire. A Gambassi Terme: Locanda dell’Agresto***, via Certaldese 13, tel. 0571.663678; Le Torri*, via Volterrana 3, tel. 0571.638188; Tenuta S. Ilario, loc. Cabbialla, 0571.698195 – 3356767302.
Orari di apertura dei monumenti. A Castelfiorentino: Museo di Santa Verdiana, sabato e domenica dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 18; Raccolta Comunale d’Arte (presso la Biblioteca Comunale), via Tilli 41, 0571.686400, lunedì, mercoledì e venerdì 9.30-13.00, martedì e giovedì 15.00-19.00; S. Maria a Chianni, da giugno a settembre, da giovedì alla domenica dalle ore 15:00 alle ore 19:00, 0571.638242.
Altri indirizzi utili: Taxi (Castelfiorentino), tel. 0571.684568.
Uffici turistici: Castelfiorentino,Via Cosimo Ridolfi, 1, 0571.629049; Gambassi Terme, Via Volterrana, 60/A, 0571.639006
Indirizzi Internet: http://www.comune.castelfiorentino.fi.it – www. comune.gambassi-terme.fi.it
Non siamo ancora distanti dalla stazione di Castelfiorentino e già incontriamo le prime tracce di antiche strade. Nella piazza del Popolo si congiungono la ‘Strada Traversa’ della Valdelsa, anch’essa repertoriata come Francigena, ma più tarda rispetto a quella che raggiungeremo fra poco, e la ‘Via Volterrana’ che da Firenze, per Montespertoli e Castelfiorentino, puntava sulla non lontana Volterra, la cui giurisdizione, nel Medioevo, iniziava proprio qui, sulla sinistra dell’Elsa.
- La Valdelsa origina fra le colline senesi e volterrane ed era una delle tante “aree di confine” fra le varie feudalità laiche ed ecclesiastiche della Toscana. Se nell’Alto Medioevo – periodo, com’è noto, che va dal 476 all’anno Mille – i volterrani governavano la sinistra Elsa, spartendosi le colline con pisani e lucchesi, la destra spettava a Firenze, mentre più a sud, le armi senesi fissavano i loro diritti territoriali fra Elsa e Staggia. Numerose consorterie parentali avevano disseminato queste campagne di castelli e parteggiavano ora per Siena, ora per Firenze, di più per quelli che avrebbero garantito loro spazi di governo e massima autonomia. Era un fronteggiarsi ostinato, senza ritrosia, continuamente rinfocolato da odi e dimostrazioni di forza fino a quando, per destino o per volontà di parte, qualcuno dei contendenti non cominciò a recedere. La prima ad allontanarsi dall’Elsa fu Volterra, poi Siena. Verso la metà del Trecento, la supremazia fiorentina in Valdelsa era cosa fatta. Le grandi casate comitali degli Alberti, dei Cadolingi, dei Guidi, le più influenti nella valle, erano state ridotte al silenzio e le loro roccaforti atterrate (nel 1202 Semifonte, nel 1270 Poggio Bonizzo), ridimensionati i potentati ecclesiastici, soggiogate le realtà comunali. Siena puntella le sue difese attorno a Monteriggioni, Firenze avanza fino a Staggia. I due fortilizi, l’uno al cospetto dell’altro, resteranno per alcuni secoli le punte avanzate dei domini delle due città. Si potrebbe allora confutare l’affermazione che le grandi strade si sviluppino solo dove esiste pace e sicurezza. La Valdelsa fu in costante agitazione, i suoi confini precari, le gerarchie fra comuni, feudi e diocesi quasi mai pacifiche, eppure la Via Francigena non ne sembrò mai danneggiata. Forse le contese locali erano poca cosa di fronte all’umile ma irrefrenabile flusso dei credenti o alle sovrane leggi dell’economia di scambio, ieri come oggi. Non a caso, nel XIV secolo, la “cattura”della Via Francigena con lo spostamento del suo asse dalla Valdelsa alla Val di Pesa, fu il risultato dell’ormai raggiunta egemonia territoriale fiorentina così come, del resto, anche le mosse militari precedenti avevano sottinteso, fra i primi obiettivi, il controllo di questa importante via di comunicazione.
Nel 1149 Timignano è fra le ambizioni fiorentine in Valdelsa. Dopo la conquista riceve la nuova denominazione di Castelfiorentino. Diventa la testa di ponte gigliata sulla Via Francigena e un buon deterrente per i senesi. Nonostante l’assetto fortificato, la cittadina si afferma anche in campo religioso. Si erigono un paio di chiese romaniche (Sant’Ippolito e San Lorenzo) e si porge ascolto a culti di espressione contadina come quello nato attorno alla figura di Santa Verdiana. Questa umile pastorella visse gran parte della sua vita rinchiusa volontariamente in una cella in compagnia di due serpi: «Questi animali di per sé schifosi e ributtanti, le si avventavano contro frustandola con le code, e poi la battevano frequentemente e con violenza, fino a lasciarla al suolo priva di sensi, mentre poi si nutrivano prepotentemente al medesimo piatto usato dalla Santa, e dei cibi migliori che si trovasse ad avere, vendicando la loro astinenza forzata, se mancava il cibo, con più violente percosse» (O. Pagni). Il santuario barocco dedicato a Verdiana rievoca, nel modo carico e fastoso della pittura toscana del Settecento, questa e altre vicende della sua vita. Il turista diligente dovrebbe coltivare bene questa cittadina, ricca di opere d’arte. Noi dobbiamo fare i conti con le ore di luce e programmare il tempo necessario per la lunga tappa, ma non possiamo tralasciare una visita al museo Benozzo Gozzoli, a pochi passi dalla stazione, per ammirare le due cappelle campestri decorate da questo maestro e dai suoi aiuti (1484 – 1491). Ricostruite al chiuso per maggior protezione, presentano soggetti connessi al culto mariano. Nelle varie scene, tutte affollate di personaggi, colpisce il rigore della partitura architettonica, la cura per il dettaglio, il vivo senso della realtà. Non fa eccezione un pizzico di vanità che si esprime nella raffigurazione del committente Ser Grazia di Francesco fra i devoti.


Ma ora basta. È tempo di camminare. Abbiamo già speso parecchie parole e non abbiamo fatto un chilometro. Via allora, congediamo Castelfiorentino (1) passando l’Elsa sul ponte che fu gettato, per la prima volta, nel 1280 dagli ospitalieri di Altopascio – noti per la loro opera a favore dei pellegrini – e avviciniamoci al nostro itinerario. Lasciamo la periferia dell’abitato lungo Via Duca d’Aosta infilandoci, dopo l’incrocio con la circonvallazione e un breve tratto di Via Sanminiatese, sullo stradello che segue un canale parallelo al fiume. Più avanti un ponticello pedonale porta sulla ripa opposta e, in breve, alla frazione Dogana (alt. 47; 2). Si percorrono ora poche decine di metri lungo la strada per Castelnuovo, poi si devìa a sinistra (Via Chimenti da Empoli). Fiancheggiate le ultime case, la strada prende un aspetto campestre e s’inerpica su per i colli, dentro la boscaglia. Ne usciremo fra un paio di chilometri, al cospetto della pieve di Coiano.

La pieve di Coiano (alt. 175; 3) sta in cima al suo nido di verzura e occhieggia le opposte vallate dell’Elsa e dell’Egola. Sulla lunga linea di crinale si dipana la strada percorsa nel 996 da Sigerico, di ritorno da Roma verso Canterbury, dopo aver ricevuto dal pontefice il pallio, ovvero il simbolo distintivo della cattedra episcopale. Noi la seguiremo nella direzione opposta, da nord verso sud. Coiano, nel diario di viaggio di Sigerico, rappresentava la ventunesima tappa (o submansione), delle 80 previste fino al ritorno in patria. Dedicata ai santi Pietro e Paolo, la chiesa ha forme composite: dove la pietra è preponderante, l’edificio assume un aspetto anonimo, dove invece spicca il laterizio si riconoscono influenze romanico-pisane con una galleria di arcate cieche e una bifora centrale. Ma quella che vediamo non è la chiesa menzionata da Sigerico. Forse allora esisteva solo una piccola aula rettangolare, adibita a ricovero e a luogo di culto.A ogni modo il cammino dell’arcivescovo di Canterbury era costellato di presenze ecclesiali. La diffusione di queste pievi campestri era il segno tangibile del grande risveglio religioso iniziato con Gregorio Magno e proseguito con la conversione della longobarda Teodolinda. Ma fu soprattutto sotto i Franchi che si affermò uno stile essenziale, in grado di trasmettere nella rude pietra la forza caritatevole del messaggio cristiano. «Pareva che la terra stessa, come scrollandosi e liberandosi della vecchiaia – ha lasciato scritto Rodolfo il Glabro nelle sue Cronache dell’anno Mille – si rivestisse tutta di un candido manto di chiese». Nel 1029 questa di Coiano possedeva il titolo di pieve, di chiesa cioè dove era possibile dispensare il battesimo; nel XIV secolo governava su sei hospitali e su ben 19 chiese minori, molte delle quali ubicate nel fondovalle dell’Elsa.

A questo punto non ci resta che intraprendere il cammino in direzione sud. Sulla sinistra, in basso, si scorgono Castelfiorentino e la sinuosa striscia dell’Elsa che disegna la vallata; sulla destra invece, l’aspetto della valle dell’Egola è più ombroso, meno abitato, più vicino al paesaggio di Sigerico. Da lontano s’annuncia qualche filare di cipressi, che è un segno della presenza umana; a volte un rosseggiare di tetti. Ma un’ampia porzione di cielo pare schiacciare le colline, tanto da giudicarle meno prominenti di quel che sembra vedendole dal basso. La stradina s’insinua fra i coltivi, sbanda poi si corregge, sale poi scende. Si sforza di seguire il crinale per consentire al viandante di fare meno fatica, ma le fiancate erose di queste tenere sabbie plioceniche si compenetrano dagli opposti versanti e quella che dovrebbe essere una linea retta diventa una serpentina. Alcuni brevi tratti della via sono scavati nel terriccio lasciando ai fianchi alte scarpate; sapremo, strada facendo, che queste “vie cave” certificano la vetustà del tracciato.

Lambita su un poggio la diruta casa del Castellare (alt. 155; 4), si incede su più vasti orizzonti. Qui sono scomparse le boscaglie che finora avevano fraternizzato con i campi, ora le colline mostrano la loro cruda pelle, instancabilmente rivoltata stagione dopo stagione da enormi mostri con le fauci di luccicante metallo. Non molto lontano da qui, a Meleto, si sperimentò agli inizi dell’Ottocento il modo migliore per mettere a coltura anche le più brulle e scoscese pendici. La tecnica si chiamò delle “colmate di monte” e consistette nella demolizione artificiale delle sommità al fine di utilizzarne il terriccio per colmare le cavità più basse ed erose. In tal modo si riconfigurarono intere colline con sequenze di ripiani a seminativo o con filari di viti maritate all’acero.
Dopo buon cammino si scende a incontrare la Sp 46 (5) che collega Castelfiorentino a Corazzano. La si percorre verso sinistra per pochi passi, poi si riprende, a destra, il percorso di crinale che qui fa da confine fra le terre di Castelfiorentino e di Montaione.
«Gli elementi che compongono il primo piano di questi scenari toscani – scrisse Edith Wharton nei primi anni del Novecento – sono quasi sempre piuttosto semplici: pendii coperti di viti e gelsi sotto cui il tenero frumento ondeggia come una fiamma verde; uliveti color cenere; e qui e là una fattoria con il tetto sporgente e la loggia aperta, protetta dal suo immancabile gruppo di cipressi. Questi cipressi, con le loro guglie intessute di velluto color nero sbiadito, sovrapposti alla neutra vastità del paesaggio, acquistano un valore straordinario, disseminati dalla mano parsimoniosa con cui lo scrittore esperto traccia i punti esclamativi, sembrano sottolineare il significato più intimo della scena, richiamando l’occhio qui a un tabernacolo, là a una casa, o testimoniando con la loro semplice presenza la caduta in disgrazia di un poggio». Ritengo questa immagine letteraria superlativa. Ci viene da una scrittrice americana che sapeva interpretare il paesaggio italiano come un’opera d’arte, meritevole di rispetto e ammirazione. Se avessimo anche solo una minima parte della sua sensibilità forse non staremmo a deprecare certe vergogne.

La Via della Maremmana confluisce, tramite un vialetto di cipressi, sulla Sp 26 (6), che si segue a destra per poche decine di metri. Poi, grazie a un passaggio pedonale, si attraversa la carreggiata e si prende uno stradello a sinistra che scende al guado del Rio Pietroso. Ne incontreremo diversi di guadi. In estate non fanno paura e poi oggi le acque sono quasi tutte catturate dalle prese irrigue, sicché non è neppure paragonabile la nostra situazione a quella dei pellegrini d’un tempo. Un fiumiciattolo come questo, quando si presentava gonfio dalle piogge, poteva cagionare la morte se affrontato con imperizia. E i nostri viandanti non si curavano molto della salute personale, avvezzi com’erano ad affidare la sorte alla Divina Provvidenza. Solo in questo modo si spiegano le parole del predicatore inglese Richard Alkerton: «Colui che vuol farsi pellegrino deve dapprima pagare i debiti, poi affidare la sua casa al governo di qualcuno, poi equipaggiarsi per il viaggio e prendere commiato dai vicini, quindi partire». In molti casi si raccomandava di fare testamento. Superato il rio, il cammino sembra dileguarsi all’interno di una vasta azienda agricola. Occorre arrivare in cima a una collina, dove si ritrovano la strada, con il nome di via San Michelino (7), e un’area di sosta. Per la prima volta da quando ci siamo incamminati ecco affiorare dal fondo un po’ di selciato, liso dall’usura. Non è cosa da batticuore, ma insomma è un modesto segno che ci ricorda di essere su una strada storica.
- Ma come erano fatte le strade medievali? Sappiamo molto di quelle romane, della loro tecnica di pavimentazione a bàsoli (pietre piatte a 4 e più lati), dei crepedines (cordoli laterali in funzione di marciapiedi), del loro perfetto e rettilineo andamento, ma sappiamo poco di quelle successive. Fino al XII secolo l’attenzione rivolta alla viabilità era alquanto sporadica e soprattutto non istituzionalizzata. Documenti relativi ai primi provvedimenti stradali dei liberi Comuni, ci informano di una larghezza variabile da 6 a 12 braccia (circa da 3.50 a 7 metri), ma non era la norma; la maggior parte erano strade non più larghe di 2-3 metri. Riguardo alla pavimentazione si era ben lontani dalla perfezione dei Romani: si provvedeva con un “massicciato”, cioè con la posa alla rinfusa di pietrame eterogeneo. Solo in alcuni casi, e nei tratti urbani, si poneva maggior cura con ‘mattonati’, ‘a spina’ o ‘a filari’, fermati con calcina.

Dopo il camposanto di Pillo (alt. 189, 8), si esce sulla Sp 4, una direzione obbligata che ci condurrà fino a Gambassi, dove si chiude l’itinerario. Non è però una via molto battuta dal traffico e consente di camminare tranquilli. L’ultimo appuntamento è però con la pieve di Santa Maria a Chianni. Ci sono chiese che pur stando distanti si abbracciano fra loro usando lo stesso idioma, assimilando il tono e la cadenza del linguaggio come segno di una comune identità territoriale. La facciata di questa bella pieve, coi suoi tre ordini orizzontali costituiti, il primo dal portale contenuto in tre archi, il secondo e il terzo da due gallerie di arcature cieche, mette in evidenza le sue affinità con il Duomo di Volterra. In effetti, la pieve che Sigerico chiama Sancte Marie Glan appartenne fino al XIII secolo al vescovo di Volterra, ma anche in questo caso siamo di fronte a un edificio molto posteriore rispetto al Mille, forse riferibile al primo o al secondo decennio del XIII secolo quando si ha notizia di maestranze volterrane all’opera in luogo. Le somiglianze con la chiesa madre continuano anche all’interno dove l’impianto basilicale è diviso in tre navate, concluso da un largo transetto con quattro alte absidiole. L’abside centrale manca, sostituita nel ‘500 da un’aula quadrangolare. Le colonne che dividono le navate hanno capitelli variamente scolpiti con soggetti vegetali e teste umane. Il riferimento a Volterra si comprende perché qui la Via Francigena si incrociava con quella proveniente da Firenze e diretta a quella città.

TI POTREBBE ANCHE PIACERE

Albano Marcarini, La Francigena per principianti, Ediciclo, 206 pagine con mappe, foto, acquerelli
Una collezione di ‘assaggi’ per conoscere la Via Francigena nei suoi tratti più suggestivi e senza fatica, a piedi o in bicicletta. Una guida per avvicinarsi al grande cammino, dal Passo del Gran San Bernardo a Roma
18,00 €
Rispondi