Itinerario pedonale ad anello nella foresta demaniale regionale del Monte Generoso, in alta Val d’Intelvi, in provincia di Como.
«L’ultima mia proposta è questa: se volete trovarvi, perdetevi nella foresta», queste le sagge parole di un grande poeta, Giorgio Caproni. Seguiamolo allora in una delle più belle e sconosciute foreste della Lombardia, sul Monte Generoso, come lo chiamano in Svizzera, o Monte Calvagione, come si usa in Italia. Questo rilievo, alto 1700 metri, taglia il confine fra i due Stati ed è il primo baluardo delle Prealpi Ticinesi. Il verde pendio sommitale e i pennacchi di bosco lo rendono inconfondibile anche dalla lontana Milano.
Il Generoso vale bene il suo nome. Ci sono pascoli a profusione, alpeggi esposti al sole, boschi ricchi e pregiati, sentieri che valgono il piacere del cammino e, nondimeno, dalla vetta, un panorama ineguagliabile su laghi, valli e monti. E da lassù che, di notte, si guardano le stelle e i pianeti e anche le mille luci della pianura.
Sul Generoso si arriva in treno, con una ferrovia a cremagliera. Questa escursione però non propone la vetta della montagna, bensì le sue pendici settentrionali. Non quelle del versante elvetico, aspre e difficili da percorrere, ma la porzione italiana, verso la Val d’Intelvi.
Il confine scende lungo la valle della Gotta, arriva in Valmara e poi risale sulla china fra la Val d’Intelvi e il lago di Lugano. Bene, sul versante italiano di questa valle, si estende una fitta faggeta, di proprietà del demanio forestale regionale. È un luogo di grande solitudine e perciò affascinante. Si cammina sotto le fronde di alberi secolari che portano nomi da leggenda, come il ‘foo di parol’ (il faggio delle parole), per via delle scritte che mani anonime hanno lasciato sulla corteccia. Ma si cammina anche sui sentieri degli sfrosatori, ovvero i contrabbandieri, e dei loro nemici giurati, i finanzieri. E c’era chi conosceva metro per metro questi percorsi, le insidie, gli episodi, le salite e le discese, i guadi e le fontane, come a dire che non c’è strada senza storia, anche per noi che ignari le calpestiamo oggi per il diletto del tempo libero.
Partenza e arrivo sono alla Casermetta di Monte Cristè, circa un chilometro prima di Bocca di Orimento. La si raggiunge da Como seguendo la strada 340 ‘Regina’ fino ad Argegno; quindi la strada per la Val d’Intelvi fino a S. Fedele; infine con una rotabile di montagna per 5.5 km (direzione Bocca d’Orimento).
Tempo di percorrenza: 2 ore e 30 minuti. Lunghezza: 5.7 km. Dislivello in salita: 362 metri.
Quota massima raggiunta: 1352 metri al Barco dei Montoni.
Segnavia: frecce con indicazione delle destinazioni. Condizioni del percorso: mulattiere e sentieri. Periodo consigliato: dalla primavera all’autunno.
Dove mangiare: a Bocca d’Orimento, Baita di Orimento, tel.031.817068 – 335.6380242.
Indirizzi utili: http://www.ersaf.lombardia.it
Per saperne di più: G. Valesi, Il Ducato dei contrabbandieri, Luzzani, Como 1950 (reprint Edlin, Milano 2003).
Highlights: il Barco dei Montoni, le trincee della Linea Cadorna, il Faggio delle parole, l’Alpe di Gotta.
©2022 Albano Marcarini

Dalla Casermetta (alt. 1256) 1 s’imbocca lo stradello indicato per il M. Generoso. Dopo breve tratto si guadagna l’Alpe Bol (alt. 1328) 2 che affaccia sull’alta valle della Breggia. Ora il percorso spiana fra prati, cespugli e betulle. Poco dopo si raggiunge la conca del Barco dei Montoni (alt. 1352) 3, dov’è una ‘bolla’ per l’abbeveraggio del bestiame. Da questa conca nasce il fiume Breggia: entra in Svizzera a Erbonne formando la Valle di Muggio, e sfocia nel lago di Como, presso Cernobbio, nuovamente in territorio italiano. Passando accanto a una bacheca (direzione Le Baracche) si scollina e, verso sinistra, ci si incammina su una pista forestale (segnavia 21) che scende il versante del Sasso Bovè. Siamo all’interno della foresta demaniale del Monte Generoso, estesa per circa 233 ettari nel comune di Pellio Intelvi. La valle che si scorge sulla destra ha il nome, poco invitante, di Valle dell’Inferno, e con quella al di là del costone alla nostra sinistra, costituisce il cuore della foresta, o meglio, della faggeta, dall’albero che meglio la contraddistingue.


Lungo la discesa s’incontrano degli appostamenti trincerati. Sono difese della Grande Guerra, in previsione di un potenziale, ma mai avvenuto, attacco tedesco dal confine svizzero. La vegetazione le nasconde ma sono distribuite lungo tutto il crinale. In alcuni punti sono state ripulite e restaurate per consentirne la visita: sono tratti curvilinei di trincee, postazioni fisse di artiglieria e ricoveri coperti. Si tenga conto che queste e una miriade di altre opere fortificatorie lungo tutto il confine dall’Alto Lario fino all’Ossola furono realizzate nello spazio di pochi mesi fra il 1916 e il 1917. I lavori divennero frenetici dopo l’agosto 1917 quando con la rotta di Caporetto si temeva un attacco decisivo su più fronti. Ma di queste complesse opere militari vi parlerò meglio in un altro itinerario, nel capitolo delle Valli varesine. Anche la mulattiera che stiamo percorrendo è un’opera militare e serviva, evidentemente, per l’approvvigionamento di queste postazioni.
La nostra discesa si chiude presso lo snodo di sentieri de Le Baracche (alt. 1120; riparo in caso di pioggia) 4, o Quattro Strade. Qui si deve seguire la direzione segnalata per l’Alpe Gotta (la raggiungono due sentieri, meglio quello basso, passante per il Foo di Parol). Il sentiero aggira lo sprone e risale ora il versante della valle del Bové fra alberi sempre più maestosi. Questi erano i sentieri battuti dai contrabbandieri e dai loro nemici, i finanzieri. Il contrabbando è stato, fino alla metà degli anni ’60 del secolo scorso una consistente forma di integrazione del reddito per molti abitanti della Val d’Intelvi e della sponda del Lago di Como, anzi, in determinati periodi, la principale fonte di reddito, sebbene illegale. «D’altra parte – si chiede il personaggio di un bel romanzo di Giuseppe Valesi, dedicato all’epopea del contrabbando – cosa vuole che faccia questa prolifica gente, un tempo a lavorare di scalpello nei vari stati del mondo ed ora costretta a vivacchiare su una striscia di pochi chilometri quadrati di pascolo, con radi campetti di ‘fraina’ o granoturco, e qualche quadratello di rape e patate?». La tortuosa linea di confine fra Italia e Svizzera rendeva i controlli particolarmente difficili e fittissima era la trama dei sentieri che la scavalcava. I luoghi di carico della merce in Svizzera erano presso Mendrisio, a Scudellate, Arogno, Cantine di Gandria; quelle di scarico in Italia, i paesi del lago, specie quelli della sponda orientale del ramo di Como, come Blevio, Torno, Pognana, e le alpi del Monte di Tremezzo. Ogni traversata poteva durare dalle 10 alle 12 ore, e le ore notturne erano evidentemente le più indicate. Ci si muoveva a coppie, ma anche a gruppi, con decine e decine di ‘spalloni’ (dalla bricolla, pesante fino a 30 kg., che portavano sulle spalle), guidati da astute ‘guide’. Si adottavano espedienti di qualsiasi genere per evitare di cadere sotto il tiro delle guardie di finanza: dalle calzature foderate di panno per camminare col minor rumore possibile agli indumenti mimetici, dalle donne ingaggiate per distogliere l’attenzione delle guardie confinarie fino al mitico sottomarino artigianale che, carico di sigarette, zucchero e caffè faveva ogni notte la spola fra Lugano e Porlezza. Giusto qui sotto, al Sasso del Bovè, avvenne nel 1934 un episodio che ebbe gli onori delle cronache e una copertina sulla Domenica del Corriere, il più diffuso settimanale dell’epoca. Due finanzieri riuscirono a intercettare una squadra di quasi cento spalloni che salivano da Arogno in direzione di Orimento. La sparatoria che ne seguì fece fuggire i contrabbandieri e disperdere il loro carico, valutato, per la precisione, in 1660 kg di caffè, 227 di zucchero, 107 di sigarette, 412 di tabacco trinciato. Quanti volessero approfondire l’argomento, oltre alla lettura del romanzo citato, devono recarsi al Museo delle Dogane Svizzere alle Cantine di Gandria (tel. 0041.91.9239843), presso Lugano, dedicato appunto al contrabbando.
Il sentiero sfila nel bosco, costeggiando ora il selvaggio versante della valle di Gotta. Per il momento non sale di quota, ma avvicina alcuni faggi di taglia davvero impressionante. Fra questi spicca il Foo di Parol (alt. 1125) 5, ovvero il ‘faggio delle parole’, per via delle scritte incise sulla corteccia. Furono lasciate dai finanzieri di custodia del vicino confine. Se pericoloso era il mestiere dello ‘sfrosatore’, non meno faticoso e snervante era quello della guardia confinaria, costretta a turni di pattugliamento della durata anche di alcuni giorni, bivaccando nei boschi. A ciò si aggiungeva anche il disagio di essere distaccati in luoghi molto lontani dalle loro residenze. Spesso le guardie provenivano dal Meridione o dalle isole con tutte le relative difficoltà di inserimento in un ambiente sociale indifferente se non, a volte, amichevole per sola astuzia.


Le foglie secche dei faggi, depositandosi a terra, formano uno spesso strato dove lo scarpone affonda incerto. In questo strame vivono innumerevoli organismi viventi, un vero laboratorio di trasformazione biologica, o, se volete, di riciclaggio dei rifiuti vegetali. Rese fradicie dalle piogge autunnali, le foglie sono attaccate da funghi e batteri e quindi decomposte da lombrichi e molluschi (chiocciole e lumache). Attraverso il loro intestino diventano materia fertilizzante che mischiata con le sostanze minerali forma l’humus superficiale del terreno.
Il confine con la Svizzera passa poco sotto il sentiero, ma non segue il fondovalle. Traccia una teorica linea retta nel bosco che diede luogo, in passato, a non poche dispute. Nel XVII secolo però, gli intelvesi giurarono solennemente, pena i più terribili castighi divini, che il confine passava proprio di lì, non prima e non dopo. Una volta tanto i diffidenti Svizzeri li presero in parola.
Di fatto oggi, come in ogni altra porzione dei 202 km di confine fra Italia e Svizzera, sono posizionati dei cippi, o ‘termini’, dove sono incise una numerazione progressiva e le sigle I (Italia) e S (Svizzera), divise da una tacca nera. Alla loro collocazione è prevista la stesura in luogo di un verbale sottoscritto dai rappresentanti dei due Stati, nel quale si precisano le coordinate geografiche e trigonometriche del sito. L’ultima generale revisione del confine italo-svizzero avvenne nel 1922; in seguito si ebbero solo delle revisioni parziali nel caso di rottura o deperimento dei cippi o la risoluzione di questioni puntuali, come quella relativa al possesso della diga del Lago di Lei, nel Chiavennasco, con reciproche permute territoriali. I termini, adeguatamente indicati sulle mappe topografiche, fungono anche da utili riferimenti per gli escursionisti. I cippi di confine nel tratto del nostro itinerario vanno dal cippo 21 presso la Dogana di Valmara al cippo 23 di Cima Crocetta, sopra l’Alpe di Gotta, comprendendo vari cippi secondari di allineamento.
In forma unilaterale il governo italiano, per evitare il fenomeno del contrabbando, decise, negli anni Trenta del secolo scorso, l’impianto di una vera e propria rete confinaria, la cosiddetta ‘ramina’, dotata di campanelli per far scattare l’eventuale allarme. Questa specie di ‘cortina di ferro’ divenne col tempo una sorta di simbolo da difendere o da scalzare, secondo i diversi punti di vista. Oggi è praticamente distrutta, spesso tristemente forata dai numerosi transiti dei clandestini.

Un secondo enorme faggio – il Foo di Bait – si trova presso una fontana ormai a pochi passi dall’Alpe Gotta (alt. 1246; ‘goccia’) 6, un luogo idilliaco, con panchine dove stare in silenzio in attesa dei daini che timidi s’affacciano al margine della radura. Fu ‘caricata’, cioè frequentata in estate dalle mandrie, fino a una decina di anni fa, poi abbandonata e ora in attesa di nuova vita, come centro agrituristico della foresta demaniale.
Riprendendo il cammino sopra l’alpe, si perviene di nuovo al Barco dei Montoni (area di sosta) chiudendo l’anello. Ai margini della prateria è ovunque presente il maggiociondolo che forma, a volte, degli aggruppamenti monospecifici. La sua fioritura, a fine maggio (come suggerisce il nome), è davvero spettacolosa per le sue vistose ciocche di giallo intenso. Una possibilità diversa per tornare alla Casermetta prevede di passare per Orimento, dov’è un bar-ristorante, discendendo la parte alta della valle della Breggia.
Ora il percorso spiana fra prati, cespugli e betulle (nel disegno).

Poco dopo si raggiunge la conca del Barco dei Montoni (20 min.) dov’è una ‘bolla’ per l’abbeveraggio del bestiame. Passando accanto alla bacheca (direzione Le Baracche) si scollina e, verso sinistra, ci si incammina su una pista forestale (segnavia 21) che scende il versante del Sasso Bovè. Siamo all’interno della Foresta demaniale del Monte Generoso.
Lungo la discesa s’incontrano degli appostamenti trincerati. Sono difese della Grande Guerra, che non furono mai utilizzate in previsione di un potenziale attacco tedesco dal confine svizzero.
La nostra discesa si chiude presso lo snodo di sentieri de Le Baracche (riparo in caso di pioggia). Qui si deve seguire la direzione segnalata per l’Alpe Gotta (la raggiungono due sentieri, meglio quello basso passante per il Foo di Parol). Il sentiero aggira lo sprone e risale ora il versante della valle del Bové fra alberi sempre più maestosi.
Fra questi spicca appunto il Foo di Parol, ovvero il ‘faggio delle parole’, per via delle scritte incise sulla corteccia. Furono lasciate dai finanzieri di custodia del vicino confine. Va detto infatti che questi sentieri furono utilizzati fino agli anno ‘60 del secolo scorso dagli ‘sfrusatori’, dai contrabbandieri, ingaggiando memorabili dispute con i militari.
Il confine con la Svizzera passa poco sotto il sentiero, ma non segue il fondovalle. Traccia una teorica linea retta nel bosco che diede luogo, in passato, a non poche dispute. Nel XVII secolo però, gli intelvesi giurarono solennemente, pena i più terribili castighi divini, che il confine passava proprio lì, non prima e non dopo. Una volta tanto gli Svizzeri li presero in parola.
Un secondo enorme faggio – il Foo di Bait – si trova presso una fontana ormai a pochi passi dall’Alpe Gotta (‘goccia’), un luogo idilliaco, con panchine dove stare in silenzio in attesa dei daini che timidi s’affacciano al margine della radura.
Riprendendo il cammino sopra l’alpe si perviene di nuovo al Barco dei Montoni chiudendo l’anello. Una possibilità diversa per tornare alla Casermetta prevede di passare per Orimento, dov’è un bar-ristorante.
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