La Via della neve sul Monte Penello

Escursione circolare a piedi con partenza dalla stazione Fs di Acquasanta (linea Genova – Acqui Terme) e arrivo a Prà, frazione di Genova (linea Savona – Genova).

Una volta tanto punteremo in alto. Lasceremo l’abito dell’escursionista per indossare quello dell’alpinista. Ma non preoccupatevi, non faremo il verso ai più impavidi scalatori, la nostra impresa è delle più facili. Saliremo sì in alto, ma per il poco che consente l’Appennino alle spalle di Genova. La meta è il Monte Penello, cinque metri sotto i mille. Una montagna con diverse curiosità che scopriremo strada facendo, e un vantaggio che vi dico subito. La si può raggiungere con poca fatica grazie alla ferrovia Genova – Acqui Terme scendendo alla stazione Acquasanta, già a una sufficiente altezza per affrontare l’erta finale. Inoltre Acquasanta, se risulta nota ai genovesi per il suo santuario e la fonte d’acqua salutare, può essere una piacevole scoperta per chi viene da più lontano. 

Per arrampicarci e per scendere useremo due vecchie mulattiere ed è qui un altro motivo d’interesse. Si tratta di percorsi selciati e impiegati fin dai tempi più remoti per collegare i porti di Prà e di Voltri con la Pianura Padana. Lunghe carovane di muli recavano al di là dell’Appennino i velluti e le sete delle manifatture genovesi, stoffe e spezie orientali, panni-lana fiorentini e altre merci preziose e leggere. Nelle vallate afferenti al vicino crinale si concentravano numerosi opifici, specie cartiere o molini, grazie all’ottimale grado d’umidità, alla disponibilità d’acqua e di stracci della vicina città, materia prima quest’ultima per produrre la carta. Bisogna pensare a luoghi vivi e attivi, dove la popolazione si occupava del proprio e dell’altro rifornendo il commercio, realizzando scambi e relativi profitti. Oggi le cose sono parecchio mutate. Le nuove strade lambiscono, scavalcano ma non toccano realmente questi angoli ombrosi dell’entroterra. La vegetazione sembra sommergerli e di fatto i villaggi si raccolgono in se stessi nel silenzio e nella pace. 

Dimenticavo di dire del titolo ‘La Via della neve’. Oltre ai traffici di lunga distanza, queste mulattiere servivano anche allo scopo pratico di rifornire di ghiaccio i locali e i magazzini della riviera. Attorno alla cima del Penello si trovano diverse ‘neviere’, edifici circolari in pietra che coprono capienti fosse interne dove questa insospettata risorsa si conservava durante tutta l’estate, pronta ad essere utilizzata. 

Da Acquasanta a Prà per il Monte Penello

Passeggiata circolare a piedi con partenza dalla stazione Fs di Acquasanta (linea Genova – Acqui Terme) e arrivo a Prà, frazione di Genova (linea Savona – Genova). Si sviluppa sulle pendici e sui crinali delle valli confluenti nel torrente Acquasanta, prevede la salita al Monte Penello (alt. 995) e la discesa lungo il crinale degli Scogli Neri. Non presenta difficoltà di percorso, risulta però un po’ faticosa per la lunga distanza da coprire e il dislivello da superare. Acquasanta si può anche raggiungere da Voltri utilizzando il bus della linea urbana 101.

•Lunghezza: 14,2 chilometri.

•Tempo di percorrenza: dalle 5 alle 6 ore.

•Dislivello: 830 metri.

•Condizioni del percorso: in prevalenza sentiero.

•Segnavia: un triangolo rosso, da Acquasanta al Monte Penello (in alcuni tratti variato), integrato da due bolli blu o segnavia AV (Alta Via del Monti Liguri) dopo il passo del Veleno; un rombo rosso da Monte Penello a Prà. 

•Periodo consigliato: tutto l’anno.

•Dove mangiare: lungo il percorso non si trovano località abitate, salvo Acquasanta all’inizio, dove lungo via Baiarda è possibile approvvigionarsi per una colazione al sacco.

•Per saperne di più: B. Ciliento L. Oliveri, In treno da Genova a Ovada, Sagep, Genova 1989; A. Parodi-A.Ferrando, Appennino Genovese, Parodi ed., 2021.


1. La ferrovia Genova – Ovada. La realizzazione di questa ferrovia nel 1894 rientrò nel quadro dei collegamenti fra il Piemonte e la Liguria. Di questa, Genova era il maggior porto commerciale penalizzato però dalla difficoltà di instaurare efficienti collegamenti con l’entroterra. Nel lungo dibattito e nelle diverse istanze sulle linee da realizzare, la ferrovia della Valle Stura figura in almeno due occasioni, nel 1858 e nel 1874, ma in entrambe con esiti negativi. L’ultima di queste aveva il pregio di presentarsi come alternativa al ventilato raddoppio della linea dei Giovi. In effetti la necessità di una ‘succursale’ alla principale linea transappenninica, aperta nel 1853, risultò evidentissima dopo l’ampliamento del porto di Genova, fra il 1882 e il 1890. In quei pochi anni il totale delle merci movimentate, fra sbarco e imbarco, passò da 2.077.703 a 4.200.423 tonnellate. Pressioni politiche e interessi di campanile dirottarono la nuova linea dei Giovi parallelamente a quella esistente con una galleria di maggior lunghezza. Si vanificarono i desideri dei sostenitori della linea per Ovada che avevano dalla loro il vantaggio di unire nel modo più diretto Genova con Asti e con Torino. Ma l’apertura del Gottardo (1882), l’ormai previsto traforo del Sempione (1906) e il non secondario ruolo di Milano stavano sempre più spostando l’asse preferenziale di Genova in un’altra direzione. Inoltre anche la Genova – Ovada, come tutte le altre ferrovie, doveva vincere la barriera dell’Appennino. I vari progetti spinsero per le più ardite soluzioni: gallerie elicoidali, rampe idrauliche, tunnel di base. Finalmente, nel 1888, il Governo unitario stipulò con la Società Mediterranea una convenzione per la costruzione di una ferrovia di 43 chilometri, sotto il passo del Turchino da Genova a Ovada. La galleria di valico fu l’opera di maggior impegno, della lunghezza di 6447 metri, a doppio binario in previsione di un raddoppio della linea, peraltro mai avvenuto. 

L’itinerario a piedi prende avvio dalla stazione Fs di Acquasanta (alt. 232), oggi un po’ declassata rispetto all’etichetta che possedeva quando il luogo era rinomato centro di soggiorno di genovesi e forestieri. Il ridente abitato, circondato dai boschi, si adagia nel fondovalle con a capo l’edificio del Santuario. Lo si raggiunge dalla piazza della stazione tramite una piacevole ‘mattonata’ che scende attraverso ambienti umidi e freschi.  

Santuario dell’Acquasanta

2. Acquasanta. «In capo alla valle del Leira e come in lieta conca fra monti selvosi siede, alle falde del monte Martino, il Santuario della Madonna dell’Acquasanta, con sorgente solforosa perenne, nota da’ tempi più remoti, adoperata per uso interno e esterno ed anche per via di fanghi contro la maggior parte delle malattie cutanee» proclama una guida d’inizio Novecento. Acquasanta, in effetti, è un tuffo nella pacata atmosfera del passato. Poco pare mutato in questo riposto angolo, estremo confine del comune di Genova in concomitanza con quello di Mele. Tre fattori ne fecero la sua fortuna: il culto religioso da cui l’imponente santuario, il termalismo per le acque salutari, l’industria per la presenza di numerose cartiere, favorite dalle risorse ambientali (acque e un buon tenore di umidità). Sebbene il culto mariano sia qui molto antico, l’attuale chiesa risale alla fine del XVII secolo, poi perfezionata e abbellita per coronare degnamente, fra ‘7 e ‘800, i numerosi ospiti qui attratti dalla bontà delle acque e dalla bellezza del luogo. Nel 1832 si aprì lo stabilimento dei bagni e nello stesso anno qui convennero a nozze Ferdinando II, re delle Due Sicilie, e Maria Cristina, figlia di Vittorio Emanuele I.

La chiesa è stretta fra i due lunghi fabbricati a portico che ospitano i servizi annessi al santuario. I platani e la sopraelevazione del piazzale conferiscono una certa imponenza al luogo e anche un nostalgico tocco di desuetudine se si osservano le slavate insegne sulle pareti e i cartelli commerciali dalle scritte obsolete. Dal piazzale è gradevole scendere la Scala Santa e raggiungere il leggiadro tempietto, le cui ‘ciappe’ d’ardesia ne rivestono la copertura, evocativo dell’evento miracoloso che ha dato origine al santuario. Poco sotto la cappella si trova la sorgente terapeutica e vicini sono gli edifici termali, oggi riattati, e il Museo della Carta. 

Scavalcato il torrente Acquasanta su un ponte ad arco, si imbocca Via Baiarda che, risalendo la valle, si avvicina all’imponente viadotto della ferrovia (il più lungo della linea: 260 metri; alto 56). Non lo si raggiunge però, poiché il nostro segnavia (un triangolo rosso) manda subito a sinistra per un viottolo che impegna la boscosa pendice della montagna. Non si tratta dell’originaria mulattiera ma di un percorso alternativo, resosi necessario per l’occlusione del primo tratto del tradizionale cammino. In effetti, nella prima parte, il percorso risulterà piuttosto anomalo risalendo in linea retta la traccia di un oleodotto. Mantenendo il segnavia indicato – a un bivio si trascura a sinistra la direzione (due bolli rossi) per il Passo del Turchino – si avvicina la groppa tondeggiante di Monte Mortaretto (alt. 521), sul contrafforte che divide la valle dell’Acquasanta dall’attigua Val Ceresolo. Notevole il panorama: un largo giro d’orizzonte sulle vette appenniniche e sulla riviera; più vicine le case sparse di Giutte, poste sotto l’accidentata cresta di Punta Martin, avamposto del M. Penello.

Case Piscine

Il sentiero ora declina nel prato e raggiunge gli appostamenti di un Centro cinofilo, quindi si immette su una pista carrabile che fiancheggia il boscoso Bric Castello. Poco più avanti si riprende la strada asfaltata: a sinistra si raggiunge il crinale e, dopo circa un centinaio di metri, si accede finalmente, a destra, sull’originaria mulattiera.

Attorno crescono senza cura giovani castagni; il bosco si presenta ingombro di ramaglie e tronchi spezzati da inverni duri e violenti. Sulla destra si avvicina una delle ghiacciaie, o ‘neviere’, di cui accennato nell’introduzione all’itinerario, poi si percorre un bel tratto selciato. Più avanti, se si pone attenzione, si vedrà che il vecchio percorso corre parallelo, ma più infossato rispetto all’attuale. Al bosco succedono magri prati, lasciati all’abbandono. È il caso dei ruderi di Case Pescine (alt. 580): la solitudine dei luoghi paragonata alla vivacità delle pendici più basse, dove proliferano ortaglie e oliveti, impressiona e inquieta, specie se sarete colti dalla nebbia o dalla foschia. Anche la vegetazione accoglie specie poco più umide e fredde, come il castagno, i faggi e i noccioli, piante già comuni sul vicino opposto versante. Eppure da poco abbiamo lasciato alle spalle i cespugli di ginestra, ginepro ed erica. 

Un profondo tratto di via incavata precede i ruderi di Case Veleno (alt. 649), quasi all’altezza del valico la cui insellatura si scorge ormai d’appresso fra spoglie erbose pendici dove spesso fanno capolino basse e cupe nuvolaglie. Il passo del Veleno (alt. 661) o, secondo le vecchie carte, il passo del Giovo Piatto consentiva un accesso relativamente facile all’alta Valle Stura e alle vie mulattiere, dirette da un lato alle Capanne di Marchirolo, storico punto d’incontro di mercanti padani e liguri, e dall’altro a Ovada e ad Alessandria. 

Al valico si incontra oggi l’Alta Via del Monti Liguri, il più noto itinerario escursionistico della Liguria: la si segue verso destra (direzione est) su un terreno dapprima scabro poi lietamente ravvivato da rade pinete. I segnavia si sovrappongono gli uni agli altri: basta rispettare il triangolo rosso che ci accompagna fin dalla partenza. Si sale ancora ma il panorama sui due versanti dell’Appennino e la bella vegetazione d’altura rendono il cammino piacevole. Si finisce anche per scendere di quota, ma per poco, aggirando le pendici del Bric Strambe (alt. 845) per toccare una provvidenziale sorgente, posta pochi passi prima di una bassa costruzione conica in pietra, o ‘baracca de pria’ in termini locali, ben restaurata, completamente rivestita dal muschio. Aveva la funzione di ricovero notturno per i contadini che periodicamente salivano a falciare i prati in quota. Si tratta di costruzioni relativamente recenti (XIX secolo) anche se la tecnica a cui le si fa risalire è certamente arcaica e affine ad altre strutture del genere, dai trulli pugliesi al cabanons della Provenza, alle bunje dalmate e alle barraques catalane. All’interno dell’impianto tronco-conico si trova un ambiente circolare sorretto da una volta a cupola realizzata sovrapponendo cerchi di pietrame aggettante.

Neviera

A quota 936 si tocca lo spoglio Colle Gandolfi, sul pianoro della Scaggia, altro termine che rimanda alle scaglie di serpentino che connotano la zona, ormai sotto le ultime balze del M. Penello. È uno snodo di sentieri dal quale si allontana l’Alta Via in direzione della Colla di Praglia. La cima del penello è un po’ spostata sulla destra, rispetto alla continuità della dorsale principale e dell’Alta Via. Una larga pista sterrata vince l’ultima pendice e guadagna il culmine (alt. 995).

3. Monte Penello. L’origine del nome non è nota, sebbene si sappia che diverse montagne rechino il prefisso «pen», come il Monte Penna in Val d’Aveto, come la stessa definizione di Alpi Pennine. Tutti termini che rimandano a un antichissimo culto delle vette, celebrato in onore del dio pagano Pen. Sulla cima è stata installata una tavola d’orientamento che permette, con buon condizioni di visibilità, di identificare le vette entro un largo giro d’orizzonte. Poco sotto sono stati allestiti due bivacci d’emergenza. In alcune carte si ritrova la variante «Monte Pennello».

Monte Penello

Ci attende ora la via del ritorno utilizzando il segnavia con un rombo rosso e seguendo un tradizionale percorso di crinale a cavallo fra il vallone dell’Acquasanta a ovest e del Rio Cantalupo a est. Alla fine si giungerà al mare, nell’abitato di Pra. Si lascia la vetta scendendo la pendice in direzione del mare. In breve si raggiunge un palo con indicati alcuni segnavia: quello da seguire riporta la dicitura E1 (Sentiero Europeo) e una losanga di colore rosso. Inizia la lunga discesa che offre subito una piacevole area di sosta con una sorgente e alcuni tavoli. Vicino si scorge una ‘neviera’. Poco sotto si trascura a destra la diramazione per la Cappella della Baiarda.

4. Le neviere. Prima dei frigoriferi industriali la produzione e la conservazione del ghiaccio si effettuavano artigianalmente sulle pendici di queste montagne che avevano il doppio vantaggio di essere in altitudine e di essere vicine ai centri della Riviera dove il prodotto veniva commercializzato. Queste costruzioni a cupola in pietra a secco, che coprono un profondo pozzo interno, servivano alla conservazione della neve nel periodo estivo. Pressata e inumidita si trasformava in ghiaccio che poi tagliato a blocchi veniva fatto scendere a dorso di mulo ai mercati della costa. Diffuse non solo qui, ma anche in altre parti dell’Appennino – molto belle quelle della Valle del Reno nel Pistoiese, dove è stato loro dedicato un museo – le neviere appartengono alle tradizionali mansioni delle genti di montagna.

Il paesaggio, discendendo la montagna, muta d’aspetto. E in modo quasi brutale. Ai prati, alle rade pinete del crinale si sostituiscono spogli ripiani e scabre falde di roccia scurissima. Il larghissimo giro d’orizzonte che abbraccia il mare e buona parte della costa ci fa sentire piccola cosa in questo ambiente dalle forme strane e contorte. Lo scienziato può darci un’accreditata spiegazione. In termini geologici ci troviamo infatti in una zona di contatto fra due diverse compagini: lontano, verso levante, intorno al Monte Antola, si radunano le spesse coltri calcaree che prendono il nome da quella montagna e che danno forme morbide e armoniose; qui invece, e verso ponente, si alternano rocce delle più disparate e aspre, appartenenti al cosiddetto “gruppo di Voltri”. La vicina Punta Martin (alt. 1001; vi si arriva facilmente in 20 minuti dal M. Penello), che sta un po’ al centro del nostro periplo, dimostra quanto sia accidentata questa morfologia. Si tratta di rocce magmatiche come gabbri, serpentini, diabasi che provengono da antichi vulcani sottomarini. Sono rocce tipicamente alpine, tant’è che gli studiosi ritengono che qui e non al Colle di Cadibona si debba fissare il confine fra Alpi e Appennini.

La Punta Martin dal Monte Penello

Durante la discesa avrete certo modo di affrontare lo sconnesso selciato della mulattiera, le cui dimensioni, davvero notevoli, fanno pensare a un trascorso di intensi traffici carovanieri sul principale collegamento pedonale fra Prà e le Capanne di Marcarolo, oltre il crinale.

Il sentiero intercetta la sommità del contrafforte che divide la valle del Rio Varenna (a levante) da quella del torrente Acquasanta (a ponente). Giunti all’insellatura del Pian delle Figge (‘delle fanciulle’) (alt. 615) sotto il Monte Riondo, il sentiero si biforca: la direzione di sinistra, che lasciamo, scende a Pegli; quella di destra, che seguiamo sempre con il rombo rosso, si dirige a Prà. Si affronta subito una serie di bei tornanti e qualche tratto invaso dalla vegetazione. Si tratta di un punto topico di questo percorso storico, ben indicato sulle carte militari della fine del XIX secolo. La denominazione del luogo – Scogli Neri – è una volta di più indicativo della strana natura delle rocce, così come quella di Pietre Rosse, poco sotto il Penello. 

Man mano che si perde quota, l’ambiente si ravviva, ma assieme alle tradizionali modulazioni del paesaggio agrario (fasce, casali sparsi, viottoli, muri in pietra, alberi ornamentali) si frappongono infrastrutture e insediamenti moderni del tutto fuori misura rispetto alle minute linee di organizzazione storica dei luoghi. Si notino soprattutto il grande quartiere di edilizia popolare sulle alture fra Prà e Pegli per dileggio denominato ‘le lavatrici’ per via dei grossi oblò, i viadotti autostradali e l’ingombrante nuovo porto di Voltri che ha determinato l’interramento di gran parte della prima fascia costiera. 

La Riviera di Ponente dal sentiero per Pra

Raggiunta la strada asfaltata si procede ormai in ambiente suburbano. Si può evitare un tratto di asfalto aggirando sulla sinistra la cima di un dosso e in seguito utilizzando la salita gradonata di Sciallero. Sottopassata l’autostrada si entra a Prà. Si può ancora mantenere, con qualche buona intuizione, la direzione storica del percorso intercettando la stretta via Ramellina. L’abitato si protende su due percorsi paralleli al mare: il più antico è quello interno, il più recente è la Via Aurelia attuale, lungo la quale si colloca la stazione ferroviaria, punto d’arrivo del nostro lungo itinerario. 


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Albano Marcarini, I sentieri delle Cinque Terre, 168 pag., 1a edizione, 2023.

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