In Friuli un tranquillo cicloturista risale l’Alpe Adria, la magnifica ciclovia che unisce il Mare Adriatico con Salisburgo. Quando giunge alle prime montagne viene tentato da una deviazione che lo porterà sicuramente fuori strada. Ma è una tentazione alla quale non si può resistere e perciò sarà, con grande sua sorpresa, ampiamente ripagato.
Infatti, dopo il bivio per la Carnia, quando ha incominciato a pedalare sulla vecchia ferrovia per Pontebba, questo ciclista nota, sulla destra, una parete continua di rocce, alta e compatta, senza apparenti vie d’accesso. Eppure, a un certo momento, un torrente balza giù dalle rocce, e non si sa con quali enormi spinte erosive scava un profondo solco uscendo da quella muraglia. Accanto al torrente c’è una strada. Il nostro viaggiatore pedala dentro una forra prima cupa e paurosa, poi, dopo pochi chilometri, il paesaggio si trasforma, con il tocco di una bacchetta magica, in un’ampia vallata dai caratteri selvaggi, con pochi abitati, tanti boschi e sorgenti che danno vita ad acque copiose e freschissime. Di primo acchito sembra addirittura appartenere a un’altra terra, del tutto sconosciuta. Si chiama Val Resia ed è la patria di una popolazione di ceppo slavo, rimasta separata e isolata fra le montagne tanto da non riconoscersi nelle culture che le stanno confinanti, né slovena, né friulana, tanto meno tedesca o italiana. Residui etnici di questo genere, come i Cimbri veneti e trentini o gli albanesi della Calabria, hanno il prezioso dono di conservare la purezza arcaica del loro idioma e dei loro costumi di vita per non dire della loro identità genetica.
L’attuale comune di Resia che copre l’intera vallata comprende quattro villaggi originari – Gniva, Oseacco, San Giorgio e Stolvizza – riconosciuti come tali nel 1336 ma eredi degli insediamenti avvenuti fra il VI e il VII secolo da parte di migranti slavi provenienti dalla Carinzia. In passato alcuni studiosi hanno pure sostenuto che la particolare parlata resiana – il rozajansk – avesse addirittura delle attinenze con il russo, da cui la presunzione di un’origine etnica ancor più leggendaria. L’argomento è discusso e di non facile definizione se si pensa che nei quattro villaggi si conservano quattro sotto-dialetti, fra loro quasi incomprensibili. Numerosi studiosi, nel passato, si sono recati in questa valle per studiare gli aspetti culturali della sua popolazione, così unica e particolare. Oltre alla lingua, base della sua identità sono il canto e la musica, danzata al suono della ‘citira’ (violino) e della ‘bünkula’ (violoncello). Il livellamento e lo spopolamento della vallata, con l’annessione all’Italia nel 1866, ha poi portato la lingua italiana a prevalere. Il Parco naturale delle Prealpi Giulie protegge oggi il patrimonio naturale, la cultura e la memoria dei circa 900 resiani che abitano la valle, ovvero i “kramarji”.

Quando gli abitanti erano molti di più – circa 5000 all’inizio del Novecento – molti di loro e i loro avi passarono la vita «sulle strade del mondo, bagnandole con la fatica e il sudore», come sta scritto sopra un monumento all’ingresso di Stolvizza, o Solbica in resiano. Infatti gli uomini di questo e dei villaggi vicini si sono sempre dedicati al mestiere ambulante dell’arrotino. Fin dal XVIII secolo erano già pratici di commerci nomadi. Girovagando per città e paesi vendevano tessuti prodotti nei villaggi, ma anche vetri, terraglie, zolfanelli e perfino il gesso per scrivere sulle lavagne. «Di frequente in Friuli – scrisse il geografo Giovanni Marinelli nel 1894 – s’incontra una famiglia resiana trascinante la solita barella a due ruote, piena di mercanzie. Un uomo tiene il carretto in direzione collocandosi fra le due stanghe, uno o due altri aiuti, perlopiù donne, ai lati con una corda passata sulle spalle, rendono meno faticosa la trazione all’uomo». In seguito divenne però prevalente il mestiere dell’arrotino – il “brüsarji” – e, in secondo luogo, quelle dell’ombrellaio e dello stagnino.
Erano mestieri che si tramandavano di padre in figlio e si vedevano fanciulli di 10 -12 anni accompagnare il genitore in viaggi che potevano arrivare fino a Vienna, a Milano, a Trieste o a Budapest. Le macchine con la mola – la “krösma” – erano portate a spalla o spinte su carrettini a due ruote, ma nel 1927 ecco la novità. Per primo, il resiano Valente Isidoro Bonbòn applica la mola direttamente sopra una bicicletta che pedalando da fermo la faceva girare. Una trovata rivoluzionaria che avrebbe ampliato, grazie a un mezzo di trasporto facile ed economico, il raggio d’azione degli arrotini ambulanti. Una normale bicicletta era adattata con due sostanziali modifiche. La prima consisteva nell’inserire una seconda canna orizzontale al telaio sulla quale fissare un sostegno per una corona dentata simile a quella dove sono montati i pedali e a questa saldarne una più piccola. Sopra la canna venivano bloccati due montanti che tenevano fisso una scatola di metallo dentro il quale c’era un perno sul cui asse era fissata la mola abrasiva e un altra piccola corona dentata. Il movimento rotatorio della mola era trasmesso dai pedali mediante le catene di trasmissione sistemate sulle corone dopo aver spostato la catena unita alla ruota posteriore. Un cavalletto incernierato a questa ruota sollevava la bicicletta da terra garantendole stabilità. In questo modo la bicicletta era al tempo stesso strumento di lavoro e mezzo di locomozione con il quale raggiungere anche i paesi e le città più lontane. Due scatole di legno, posizionate sui portapacchi davanti e dietro contenevano gli utensili, i vestiti e quant’altro occorreva per il viaggio.

«Quando sono in viaggio – nota sempre Marinelli – i resiani chiedono un pezzo di polenta, una scodella di minestra ed il dormire per carità, volendo portare a casa intatti i tenui guadagni del loro commercio ed è ammirabile l’affetto che essi conservano per la valle natìa, a cui fanno ritorno dall’Austria, dall’Ungheria dalla Romania e fino dalla Turchia e dalla Russia». Erano migrazioni stagionali poiché in estate, al tempo dei raccolti, la valle aveva bisogno di tutti gli uomini utili. Alcuni di essi fecero fortuna in quei Paesi lontani. Uno di loro, Giuseppe Trancon, fu addirittura beneficiato dall’arciduca Francesco Ferdinando poiché fu in grado di riparargli una molla del suo orologio d’oro da tasca. Altri, come Antonio Pusca, aprì a Pittsburg negli Stati Uniti un laboratorio per la produzione di strumenti chirurgici. Tutta la singolare vicenda degli arrotini oltre alla raccolta dei loro macchinari è oggi rievocata nel Museo dell’arrotino di Stolvizza. Vi sono fra l’altro esposti circa venti modelli di biciclette adattate nei più svariati modi. Domina il villaggio e la vallata il sontuoso Monte Canin «che va sù con i suoi duemila cinquecento novantadue metri» (G. Caprin) e dove, secondo una leggenda locale, vi sono confinati i dannati.





©albanomarcarini2025
DA RESIUTTA A STOLVIZZA
Facile itinerario cicloturistico nella Val Resia nelle Prealpi Giulie nella regione Friuli – Venezia Giulia.
Partenza: Resiutta, nella Valle del Fella. Si raggiunge utilizzando la Ciclovia Alpe Adria da Udine (direzione Salisburgo) o da Tarvisio (direzione Grado). In treno si può scendere alla stazione FS Carnia e raggiungere dopo 9 km di pista ciclabile Resiutta. Arrivo: Prato di Resia, capoluogo del comune di Resia. Per raggiungere la frazione Stolvizza con il Museo dell’arrotino occorre proseguire lungo la strada rotabile di valle per altri 5 km.

Lunghezza: 13.6 km. Dislivello: 380 metri in salita, 130 metri in discesa. Tempo di percorrenza: 1 ora e 15 minuti. Punto più elevato: 526 metri. Condizioni del percorso: strada bianca e asfalto (56%) su strada provinciale. Mezzo consigliato: mtb o bici da turismo. Periodo consigliato: da maggio a ottobre.
La buona tavola e il buon riposo: Ristorante Al buon arrivo, viale Udine 25, Resiutta, 0433.51207; Albergo ristorante Alle Alpi, via S.Giorgio 2, Prato di Resia, 0433.553912; Bar trattoria All’Arrivo, Via Udine 31, Stolvizza, 339.2257403.
Indirizzi utili: Museo dell’Arrotino (aperto dal mercoledì alla domenica dalle 10 alle 13, consigliabile la prenotazione), Via Monte Sart 12/a, Stolvizza di Resia, 335.6275763, www.arrotinivalresia.it – Centro Visite Parco delle Prealpi Giulie, piazza del Tiglio3, Prato Resia, 0433.53534 – Ecomuseo Val Resia, c/o Comune di Resia, via Roma 21, Resia, 0433.53001.
Info: a chi preferisce muoversi a piedi in Val Resia sono dedicati sei sentieri tematici. Fra questi il “Ta Lipa Pot” (in resiano “la bella strada”), percorso ad anello sul fondovalle del torrente Resia. Lungo 7.7 km con un leggero dislivello di 160 metri, si copre in circa 3 ore.
1. Inaugurato da pochi mesi, l’itinerario della Val Resia aumenta le possibilità cicloturistiche imperniate sulla direttrice principale Alpe Adria, nel tratto fra Venzone e Tarvisio. Il percorso si raccorda appunto con Alpe Adria a Resiutta e prende avvio al ponte della strada provinciale 42 sul torrente Resia (lato di sinistra) risalendo il corso d’acqua accanto alla strada rotabile. Questo corso d’acqua nasce ai piedi del M. Canin e attraversa la valle per tutta la sua lunghezza, alimentato da numerosi affluenti laterali. Le sue acque cristalline gli hanno valso il nome di Bila, “acqua bianca” per via delle vene di gesso che affiorano nel suo letto.

2. Dopo il primo varco fra le rocce, la valle e il greto del torrente si allargano e, al primo bivio, si piega a destra in direzione Povici, superando subito il corso d’acqua (area di sosta). Poco più avanti si attraversano, a sinistra, le case di Povici di Sotto.
3. Si attraversa anche il Rio Resartico a Povici di Sopra e si continua a sinistra, sempre su asfalto. Dopo poco, all’altezza delle ultime case, prende avvio la vera e propria pista ciclabile, lungo la sponda del rio che qui confluisce nel torrente Resia. È un tratto particolarmente suggestivo nel bosco di pino nero, l’albero più diffuso nella valle, su fondo naturale ben battuto: all’inizio pianeggiante, incontra poi due tornanti in salita.
4. Con alcune curve si tocca un culmine a 410 metri d’altitudine per poi procedere tranquillamente nel bosco di conifere risalendo la valle.
5. Il percorso ora segue il greto sassoso di calcari e dolomie del Rio Mainuze che, poco più avanti, attraversa su un guado di cemento per poi incontrare un punto di sosta e un secondo, più modesto, guado.
6. Ci si porta più vicino al torrente Resia e si utilizza un ponticello in legno per superare il Rio Nero. Si avanza sempre protetti dall’ombra del bosco che, di tanto in tanto, si alterna a qualche radura. Si tratta di un bosco termofilo di fondovalle con un forte irraggiamento solare, incrementato anche dalle spoglie distese del greto fluviale. Alla sua aridità si contrappongono specie vegetali resistenti: oltre al pino nero, l’orniello, il nocciolo, il corniolo. È pure l’ambiente adottato da vari tipi di orchidee. Alcune pianticelle, normalmente abituate a quote più alte, si sono insediate in fondovalle come ‘specie pioniere’, soprattutto nelle intercapedini di grossi macigni del greto o in ambiti più freschi, come il raponzolo di roccia, la primula orecchia d’orso, il rododendro cistino.

7. Ora si attraversa il torrente Resia sopra un lungo ponte sospeso, cadenzato da tre portali ad arco. Oltre il ponte si riprende a destra, fra le case di Tapar Tigo, la strada provinciale 42. Sullo sfondo si intravedono le frastagliate vette del Monte Canin.
8. La strada, a scarso traffico, supera il Resia e incontra la diramazione a sinistra per Prato e a destra per Gniva. L’itinerario procede invece sulla provinciale di fondovalle, ormai a solo 5 km da Stolvizza.
9. Si arriva a Stolvizza dopo aver vinto un altro tratto di salita con due tornanti. Le prime case del villaggio, dov’è il Bar ‘All’arrivo’, appartengono alla borgata Pustigost. Continuando sulla via principale, dopo aver fiancheggiato la chiesa di S. Carlo, si arriva al piazzale dove sorge il Museo dell’Arrotino. Nel paese si notano alcuni esempi di casa resiana, altrove scomparsa dopo i danni del terremoto del 1976. Sono dimore semplici, quadrangolari, intonacate di bianco, con stalla e cucina al piano terreno, camere da letto al primo piano collegate all’esterno da un ballatoio in legno scuro, fienile all’ultimo piano. Tutti i vari livelli collegati, sempre all’esterno da scale in legno. Ballatoi e portali sono spesso finemente decorati, ma non si pretende di trovare palazzi – salvo uno, forse, la bella Casa Lettig del XVIII secolo – bensì modeste case contadine oggi per gran parte riattate come dimore per i pochi pensionati che si ostinano a rimanere in valle.

Albano Marcarini, La ciclabile dell’Adda 1 – 48 pag., 2a edizione, 2022 – ISBN 9788881705474
Da Lecco a Cassano lungo il più lombardo dei fiumi, l’Adda. Un’esplorazione curiosa fra natura, storia, civiltà delle acque e archeologia industriale. I tesori del fiume: le centrali elettriche dell’Adda, il ponte e il Naviglio di Paderno, il Castello di Trezzo e il villaggio operaio di Crespi d’Adda. Una guida tascabile! Spese spedizione gratuita.
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