Escursione circolare a piedi nell’entroterra ligure di Loano.
Le costruzioni rurali temporanee, cioè non abitate stabilmente dai contadini, sono un elemento del paesaggio agrario rivelatore di un trascorso, stretto rapporto fra uomo e campagna. In Italia ve ne sono di tutte le forme e strutture: in paglia, in legno, in terra cruda e in pietra. Fra queste ultime si distinguono, per abilità costruttiva, quelle a cupola semisferica. Nella Riviera ligure di Ponente, nell’entroterra di Loano, un sentiero avvicina alla loro conoscenza.
Se si osserva una vecchia cartolina della Riviera, magari degli anni Trenta, ci si accorge che sulle montagne, al di fuori dai giardini delle ville, non ci sono alberi ma un’infinità di campicelli messi l’uno sopra l’altro come una piramide azteca. Sono le ‘fasce’, oggi limitate a pochi scampoli nelle aree agricole più tenacemente legate alla tradizione. In una regione, come la Liguria, chiusa fra il mare e la montagna, le fasce sono un’invenzione che ha dell’ingegnoso. Sono ripiani sovrapposti e continui, di modo che la pendice del monte risulta alla fine tutta modellata a gradini. Li sostengono accurati muriccioli in pietra a secco o alte zolle erbose. Sulle fasce – termine molto appropriato poiché dà l’idea di un qualcosa che cinge e stringe la montagna – si è coltivato tutto il possibile. Impossibile l’uso dell’aratro per lo spazio limitato, si è sempre ricorso alla rudimentale zappa. Con quanta fatica, lo si può immaginare. Un tempo si contavano le ore per raggiungere i campi più lontani, e si dormiva sotto un cumulo di sassi per economizzare le giornate. Ecco allora sorgere sulle fasce, specie sul versante a ‘mestegu’, quello asciutto e soleggiato, dei piccoli igloo di pietra. Si chiamano ‘caselle’ e servivano al ricovero degli attrezzi, del bestiame e al riposo dei contadini durante la permanenza sui campi. Le usavano anche i pastori durante i loro tragitti di transumanza. Sembrano poca cosa, ma sono state fatte con perizia. Hanno spesso una cupola interna che fuori non si vede perché coperta di frasche e terriccio.
Grazie alla Sezione del Club Alpino Italiano di Loano, è stato possibile recuperare un lembo del tradizionale paesaggio ligure alle spalle di questa cittadina costiera. L’intervento ha riguardato le più alte propaggini del Monte Carmo, lungo lo spartiacque alpino. Qui infatti erano ancora presenti evidenti segni di terrazzamento coltivo, col sistema delle ‘fasce’, e alcune di queste forme di insediamento temporaneo, conosciute col nome di ‘caselle’.




L’anello delle caselle di Loano
Escursione circolare a piedi con partenza e arrivo alla località Castagnabanca, a 650 metri d’altezza, nella valle del torrente Nimbalto. La si raggiunge da Genova utilizzando l’autostrada A10 per Ventimiglia con uscita al casello di Pietra Ligure. Raggiunta la Via Aurelia si prosegue fino a Loano, quindi si seguono le indicazioni per Verzi. Superata quest’ultima frazione si prosegue, prima su asfalto poi su sterrato, seguendo i cartelli per il Rifugio Pian delle Bosse. A circa 8 km da Loano si posteggia l’auto di fronte all’inizio dei sentieri.
•Tempo medio percorrenza: 3 ore. Lunghezza: 5.5. km
Dislivello: 310 metri circa. Altitudine massima: 861 metri
Condizioni del percorso: sentieri e mulattiere.
Segnavia: due quadrati rossi fino al Rifugio Pian delle Bosse; un bollo rosso e due aste rosse nell’anello superiore; alcune frecce in legno.
Periodo consigliato: primavera, autunno.
Dove mangiare: Rifugio Pian delle Bosse, reg. Castagnabanca 12, Pietra Ligure, 338.3597952, aperto sabato domenica e da lunedì al venerdì su richiesta con ristorazione e alloggio.
Indirizzi utili. Club Alpino Italiano, Sezione di Loano, http://www.cailoano.com
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©AlbanoMarcarini.2023

1. Dal parcheggio di Castagnabanca (alt. 615) si imbocca la pista sterrata che sale in direzione del rifugio. Il curioso toponimo è la somma di ‘castagna’ con ‘banka’; secondo alcuni studiosi quest’ultimo termine deriverebbe dal germanico, come ‘fascia di terreno rilevata’. Subito, sulla destra, si stacca il percorso per le mountain-bikes che arriva al rifugio in modo poco più agevole, ma noioso, rispetto al sentiero. La pista asseconda il versante fra luci e ombre in un avviluppo di piante e arbusti, indice di un divenire spontaneo del bosco, non più governato. Anche alcuni annosi castagni sembrano mal sopportare il segno del tempo, intaccati dalle malattie corticali. Rispettando i segnavia rossi, si rimonta decisamente la pendice lungo uno scabroso sentiero fatto di grossi massi. Gli alberi stringono da vicino e sembrano opprimere con il loro carico di umidità, ma i varchi di luce fra il fogliame lasciano intendere che una prima meta è vicina. Questa pendice culmina a 1389 metri d’altezza con il Monte Carmo, importante vertice spartiacque delle Alpi Liguri Orientali e punto d’incontro di cinque termini comunali.
2. Dopo circa 30 minuti di salita si guadagna il ripiano dove sorge il Rifugio Pian delle Bosse (alt. 841), inaugurato nel 1978. Qui, dopo una sosta, inizia il vero e proprio ‘Anello delle caselle’, attrezzato dalla locale sezione Cai con un particolare segnavia. Snodandosi nel bosco e nella macchia, il percorso unisce le varie aree coltive e le ‘caselle’, diverse per forma e dimensione, ma tutte aventi lo scopo di fornire riparo a contadini e animali nei lunghi periodi di permanenza in quota, lontani dai villaggi. Alle spalle del rifugio parte il sentiero (indicato anche con i segnavia TA, che sta a significare ‘Sentiero delle terre alte’); s’intrufola nel bosco di noccioli e, in breve, avvicina, sulla sinistra, una prima casella. Nonostante la tecnica costruttiva, così particolare, risalga a epoche remote e non facilmente precisabili, le attuali caselle di Loano sono il frutto di continui rifacimenti e ricostruzioni. Con esse si voleva offrire ai contadini un riparo temporaneo da utilizzare durante la giornata di lavoro in caso di maltempo. Sono costruzioni in pietra a secco, generalmente circolari, belle per concezione e aspetto. Sono prive di finestre e hanno solo una bassa apertura d’accesso allo scopo di mantenere il tepore che si generava all’interno. Sopra la base circolare si alzava la cupola rastremata fino al culmine, coperto da un lastrone, o ‘ciappa’. All’esterno la cupola non era visibile perché l’alzato dell’edificio si elevava a tronco di cono fino a una certa altezza e terminare poi piatto. I vuoti erano colmati da pietrisco e argilla per garantire un maggior isolamento. Il materiale da costruzione era il risultato dello spietramento dei campi e del loro modellamento in forma di ‘fasce’, o terrazzi. Si dice che la pianta circolare facesse evitare l’uso di pietre sbozzate e squadrate, più difficili da reperire in natura. Una seconda casella si trova alcune decine di metri più avanti, seguendo sempre il sentiero segnalato. Qui si scopre fra le pietre anche la lama arrugginita di una vecchia falce. Anche la grande distanza dai villaggi motivava la presenza delle caselle. Invece di far ritorno a casa, nella buona stagione si preferiva pernottare sui campi. Nella casella si allestiva un rudimentale giaciglio su un sovralzo di legno e spesso il piccolo ambiente faceva anche da stalla per il mulo.
3. Raggiunta una piazzola erbosa che fa da eliporto, si abbandona un sentiero che, verso destra, riporta a valle e si mantiene la direzione di sinistra. Appena tornati nel bosco, sulla sinistra, a poche decine di metri, fa bella mostra di sé la terza costruzione in pietra, dalla porta d’accesso molto più ribassata rispetto alle altre. Tornati sul sentiero si procede fra sorbi e carpini che prendono il posto del noccioleto. Non è rara in questo ambiente la beccaccia. In una conca ci si imbatta nella casella detta ‘del giardino’, per via di un piccolo ‘maxè’ (muretto in pietra a secco) che contiene alcuni arbusti. Subito dopo si tocca un culmine, lungo il contrafforte del Carmo che degrada in direzione di Pietra Ligure. Il sentiero, ben visibile, prosegue ora sul versante che volge verso il Rio di Giustenice. La vegetazione muta d’aspetto e s’impongono ora i primi svettanti faggi, avanguardie delle vaste faggete del Carmo e del Melogno. Si lascia una diramazione che scende a destra e rispettando il segnavia TA si procede in ambiente più umido e fresco.
4. Dopo circa 20 minuti di cammino dall’ultima casella, occorre prestare attenzione: dove il sentiero s’allarga in un ripiano, si nota un sentiero che, verso sinistra, rimonta deciso la montagna. Occorre seguirlo per raggiungere la spoglia sella di Bric Colletto (alt. 863), da cui si gode la vista su tutta la porzione dell’anello appena coperta e su quella che resta da fare, in direzione del rifugio, di cui si scorge il tetto. Nelle giornate terse, mirando l’orizzonte marino, capita di distinguere la Corsica. Si scende decisi verso il rifugio entrando in una magnifica macchia di betulle che riporta a orizzonti forestali più nordici. Qui si scorge l’ultima casella che ci premia per le sue dimensioni, decisamente maggiori rispetto alle precedenti. In breve si torna alla prima casella e, quindi, al rifugio di Pian delle Bosse.
La via del ritorno a Castagnabanca può avvenire in due modi, uno più facile, ovvero seguendo il percorso d’andata, e uno più variato, nel seguente modo e sulla cui percorribilità, specie in periodo estivo, si consiglia di chiedere preventivamente informazioni presso il rifugio. Tralasciato dunque il sentiero dal quale si era saliti, si punta verso l’estremità del pianoro del rifugio, oltre la fonte e la piccola teleferica. Qui si diparte un altro sentiero che dopo aver seguito, in lieve ascesa, la costa del monte arriva a un bivio segnalato. Si prende la direzione di sinistra, verso valle, che indica ‘la Rocca’. Dopo una lunga discesa si approda al piede di alte pareti di roccia, in parte celate dalla rigogliosa vegetazione del fondo umido della valle. La più imponente di queste è la Rocca d’Avio – ‘a rocca de l’Aviu’, in dialetto loanese – un poderoso torrione, palestra di arrampicatori. Poi si guadagna un’altra biforcazione dove si tiene sempre a sinistra; varcato il rio di fondovalle in un vero intrico di vegetazione si procede lungo il versante. A un tratto si esce allo scoperto, lungo una pendice percorsa dal fuoco nel recente passato. La vegetazione vi rinviene lentamente e, per ora, allo stato arbustivo predominano le ginestre, gli alti cardi, le rose canine, qualche alberello di agrifoglio. Non mancano zone di vera e propria macchia, distinguibile oltre che alla vista anche all’odorato quando il sole scalda le piante aromatiche quali il timo, la lavanda, la ruta. Quest’ultima, in dialetto ‘rùa’, è anche popolarmente detta ‘erba da mugé’, cioè ‘erba della moglie’ perché era destinata ai mariti marinai per calmare, durante i lunghi viaggi oceanici, gli appetiti sessuali.
Un ultima attrattiva si scopre, una volta rientrati nel bosco e lungo la via, ormai carrabile che riporta a Castagnabanca. Si tratta di un lungo edificio in pietra, con coperture pure in scaglie di pietra, avente, oltre alla porta, una singolare apertura frontale divisa da due pietre piatte. Aveva probabilmente una funzione agricola, come fienile o come stalla.
Va infine detto, per completare il quadro di questo interessante spaccato di civiltà contadina, che sul sentiero che dal Pian delle Bosse si dirige verso il Giogo di Giustenice sussistono anche alcune residue ‘neviere’, vale a dire grosse buche scavate nel suolo e rivestite di pietrame. Prima dei frigoriferi industriali la produzione del ghiaccio si effettuava artigianalmente sulle montagne con il doppio vantaggio di essere in altitudine e di essere vicine agli alberghi della Riviera dove il prodotto veniva commercializzato. Nel profondo pozzo interno, si conservava la neve durante l’estate. Pressata e inumidita si trasformava in ghiaccio, tagliato a blocchi veniva fatto scendere al mare a dorso di mulo. Si tenga conto che la rilevanza di questo commercio fu tale da imporre, nel 1625, una tassa sui quantitativi prodotti.
Le fasce, un modello di architettura del paesaggio
Non c’è monumento al lavoro umano più commovente delle ‘fasce’ liguri. Il forte pendio e la propensione all’erosione dei suoli ha costretto i contadini a un immane sforzo costruttivo. Terra su terra, sasso su sasso si sono architettati ripiani sovrapposti per frenare lo scivolamento e per aprire lembi di campagna. «Il versante si riduce così ad essere tutto scalarato – scrive lo studioso Gaetano Rovereto – e rotto in tanti ristretti gradini, di altezza ineguale, che si allungano con irregolarità, cingendo il rilievo come le curve di livello di una carta topografica. Quella coltivazione mista e varia, a frutteto, vigneto e orto, costituente la villa, che lungo la Riviera, da Albenga alla Magra, rende tanto piacevole il paesaggio, è collegata a questi artificiali ripiani; e ne dipendono pure le coltivazioni dei fiori, gli oliveti, i castagneti dei luoghi a ombrìo, o in alta fascia sopra gli oliveti, e persino, qualche volta, i prati di montagna».
Durante il nostro percorso, specialmente se si sceglie di salire a piedi da Verzi, si possono osservare questi fondamentali elementi del paesaggio. Qui sono soprattutto fasce sostenute da muri a secco (fig.1), dove la parte superiore coltivata è detta ‘lenza’. In altri casi la fascia è sostenuta da un’alta zolla erbosa (figura 2) e viene detta ‘zinna’ o ‘proda’. Quando il declivio è minore e la fascia più ampia ecco la ‘cianna’. Un caso particolare di terrazzamento è la ‘lunetta’ (figura 3), ovvero un muro di sostegno a forma di mezzaluna che circonda una fossa riempita di terra per ospitare una pianta di olivo. Il sistema delle fasce è antichissimo, ma è soprattutto durante la felice congiuntura economica e demografica dei secoli XV e XVI che esso acquistò una dimensione prevalente nel paesaggio. Le ville agricole delle famiglie nobili genovesi si circondavano di terrazzi degradanti a mare imprimendo al paesaggio un ordine e una armonia da lasciar meravigliati i viaggiatori del tempo.

Albano Marcarini, Il Sentiero della Regina, 168 pag., 3a edizione, 2019.
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