Se ci sono state due persone che hanno detestato la Via Emilia, queste furono Stendhal e John Ruskin. Non riuscivano a concepire perché fossero costretti a subire la protervia e le pignolerie di un infinito numero di gendarmi e gabellieri. Fino all’Unità d’Italia, nel breve spazio fra Bologna e Parma, era necessario superare ben sedici controlli doganali con comprensibili ritardi di tempo e perdita di pazienza. La strada attraversava una teoria di principati e staterelli, con capitali le città che molti secoli prima l’Impero romano aveva distribuito a tappe costanti lungo la sua maggiore arteria di espansione verso la Pianura Padana; una strada tracciata nel 187 a.C.

La Via Emilia corre diritta come un fuso per oltre 250 chilometri da Rimini a Piacenza. Qualcuno potrebbe obiettare che no, che qualche trasgressione la fa. Come quello strano saliente a Castelfranco Emilia che si spiega con il variato andamento del Panaro o come quelle lievi gobbe a Cesena causate dall’approssimarsi delle colline. Ma sono le solite eccezioni che confermano una verità.
Lungo questa strada stanno la vita, la passione, il cuore pulsante di una regione che da essa ha preso il nome: Emilia appunto. Undici città grandi e piccole si allineano come perle lungo questo nastro d’asfalto – ma in origine composto di regolari bàsoli di dura arenaria – che divide l’ossatura montuosa dell’Appennino dalla piana del Po.
Segno territoriale determinante, ribadito ai nostri giorni dalle parallele autostrade e ferrovie (compresa la linea ad alta velocità da Milano a Bologna), questa strada ha intercettato e distribuito tutti i flussi commerciali dal Centro al Nord Italia. Curiosamente questi non sono stati mai univoci. I Romani risalivano la Via Flaminia per la Gola del Furlo prima di raccordarsi a Rimini alla Via Emilia. I pellegrini romei, ma prima ancora i Longobardi e i Franchi, la lasciavano a Fidenza o a Parma per approdare nella Tuscia mediante il varco appenninico di Montebardone. Con l’affermazione di Firenze fu invece lo ‘stradale’ della Futa e della Raticosa a essere privilegiato nelle comunicazioni con Bologna. Ma un’infinita serie di altri percorsi, perduti nella storia, si sono appoggiati a questa vera ‘strada maestra’, sia nella direzione delle valli appenniniche sia nell’allora incerto paesaggio fluviale della Bassa padana.
La strada è entrata nel mito, nella letteratura, nel cinema e nelle canzoni (ricordate Guccini?). Lungo di essa si sono puntellate le centuriazioni coloniche dei Romani che ancora oggi si riconoscono nel disegno a maglie regolari della campagna fra Imola e Faenza. Ma è difficile stabilire chi sia arrivato prima. Per alcuni studiosi è stata la strada a sovrapporsi alla già avviata sagomatura territoriale. Oppure il contrario.
Fra le rovine delle città distrutte dopo il crollo della potenza romana, viste da Sant’Ambrogio in cammino verso Bologna nel 393, si sono affrontati bizantini e longobardi. Più tardi, da esse si sono sollevati i liberi Comuni e si sono confrontati valenti artisti, ansiosi di corroborare a Modena, a Parma e a Fidenza il cammino dei pellegrini con le storie sacre scolpite sulla pietra. Lungo i greti asciutti dei fiumi si sono formati i confini degli staterelli tanto sgraditi ai viaggiatori stranieri ma anche fonte, per lo stesso Stendhal, di ispirazioni letterarie: basta ricordare la sua Certosa di Parma.
Soprattutto, prima della spinta alla motorizzazione, la Via Emilia fu la palestra dei ciclisti: «un grillaio di biciclette», come annotava cinquant’anni fa Corrado Alvaro. Guareschi, il ‘padre’ di Don Camillo e Peppone, la usava per venire a Milano, Panzini per andare a Bellaria, sempre su due ruote. Alla fine dell’Ottocento Olindo Guerrini, il poeta del velocipede, vi trascinava i soci del Touring Club Ciclistico Italiano per massacranti escursioni di centinaia di chilometri, fino a Firenze e a Roma. Si passava, si correva, si mangiava la polvere dietro i pesanti e lenti autoarticolati o dietro le goffe corriere d’anteguerra.
«Da Parma a Bologna la Via Emilia ha una certa poesia fino a quando il sole si accontenta di fare sbadigli rossastri dietro la linea d’orizzonte. Allora, più che su una strada, sembra di pedalare in un enorme corridoio. Le porte delle case sono tutte aperte: si vede la gente che si lava la faccia in grandi catini d’acqua fresca, si vedono le bocche rosse dei forni familiari, si sente il profumo del pane. Anche le porte di tutte le chiese sono spalancate sulla strada e i grandi Santi di gesso colorato salutano gli operai che vanno al lavoro e guardano stupiti il cicloturista che fugge dal lavoro pedalando sulla sua superleggera scintillante d’alluminio» (Giovanni Guareschi, Lungo la Via Emilia col fresco e col caldo, Corriere della Sera del 18.04.1941).
Due infiniti filari di platani incidevano il paesaggio fino a un borgo, a un’osteria, allo slargo di un benzinaio che vestiva la tuta a striscie della Ozo o dell’Aquiloil. Grappoli di camion si radunavano attorno alle locande, sotto i ponti, fermi ai passaggi a livello mentre solitarie motociclette lasciavano sulla carreggiata, come in Amarcord, scie di polvere e invidia.
La veste migliore di ogni città si mostrava lungo questa strada formandone l’asse generatore: palazzi, piazze, archi, negozi, fontane. Le chiese invece, un po’ disturbate da tanta promiscuità, preferivano occhieggiarla qualche passo più indietro, con una piazzetta fatta tutta per loro, come a Fidenza, a Fiorenzuola, a Piacenza.
Oggi la Via Emilia, trasferite le sue funzioni sulla vicina autostrada e perduto il suo fascino di ‘strada di frontiera’, è una grande arteria metropolitana, anzi una vera strada-città-regione, dove si affollano i soliti richiami consumistici: ipermercati, magazzini, capannoni, motel e pizzerie, gelaterie e sale giochi, concessionarie d’auto, depositi e rottamai. Eppure per alcuni urbanisti qui si gioca il futuro di una delle più dinamiche regioni italiane. Vincerà la propensione della strada alla disordinata conquista di nuovi spazi verso un unicuum urbanizzato dal Po all’Adriatico, o ci sarà invece modo di ritrovare le sue coordinate storico-culturali ? Potrà essere un ‘corridoio verde’ da presentare ai turisti come uno show-room del paesaggio italiano o assimilerà soltanto le chiassose forme della strada mercato ?

A noi piace pensare a una Via Emilia dove i nuovi esteti del tempo perduto torneranno ad apprezzare il viaggio ‘dolce’, la dirittura dei carraie nelle città dove trillano i campanelli delle biciclette, i filari di pioppi, la genialità dei campi intercalati a schiere di alberi e vigne – che gli agronomi chiamano a ‘piantata promiscua’ – la funzionalità dei prati dal profilo arcuato – detti ‘campi baulati’ per favorire lo scorrimento dell’acqua – la rustica nobiltà dei ‘caselli del latte’ – i luoghi di produzione del parmigiano – la gentilezza delle ville, i ponti di pietra e i cippi di granito, l’essenzialità dei cascinali, l’ordinato reticolo dei canali irrigui, il vago profilo dell’Appennino, uno schietto bicchiere di lambrusco… e tante altre cose ancora.
I luoghi della Via Emilia
1. Rimini. L’ Arco di Augusto è il punto di congiunzione fra la Via Flaminia e la Via Emilia. Il vicino ponte di Tiberio è un importante opera di ingegneria stradale romana. Fu iniziato da Augusto e terminato da Tiberio nel 21 d.C.
2. Reticolato romano. Fra Imola e Faenza, a nord della Via Emilia, si estende la maglia della centuriazione romana, ancora ben riconoscibile nella disposizione ortogonale delle strade e dei canali irrigui.
3. Bologna. Nel sottopasso fra piazza del Nettuno e via dell’Indipendenza si sono conservati tratti di lastricato del cardo e del decumano della Bononia romana. Il decumano massimo, nel tratto urbano, corrispondeva alla Via Emilia.

4. Cavazzona. Un lungo edificio porticato cela una vecchia stazione di posta che, a sua volta, sorge sui resti di una mutatio romana, detta ‘ad medium’ perché posta a metà strada fra Rimini e Piacenza.
5. Cippo confinario. Posto al km 140.7, nei pressi del ponte sul Panaro, ha indicato fino al 1859 il confine fra lo Stato Pontificio e il Ducato di Modena.
6. Reggio nell’Emilia. Tagliando la città, l’antica strada ha conservato il suo nome nella toponomastica cittadina e rivela qui il decoro dei palazzi nobiliari neoclassici, dei porticati, delle chiese barocche e della consueta animazione delle città emiliane. Quello di Reggio può essere preso a modello di tutti i tratti urbani toccati dalla via.
7. Parma. Arco di San Lazzaro. È uno dei rari archi trionfali cittadini posti a cavallo della Via Emilia giunto fino ai nostri giorni. Fu innalzato nel 1628 in occasione delle nozze di Odoardo farnese con Margherita de’Medici.
8. Ponte sul Taro. Gettato nel 1816 permise di superare un fiume dal regime capriccioso. Per l’occasione furono poste ai capi delle testate quattro statue allegoriche dei fiumi del Ducato di Parma.
9. Fiorenzuola d’Arda. Antico albergo Croce Bianca. Rara testimonianza di un alloggio e ristoro per passeggeri con ricovero per gli animali. Risale al XVIII secolo.
©Albano Marcarini, 2017
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